Francesco, il teatro nelle vene: tra passione, superstizione e sogni sospesi

Home / Storie / Francesco, il teatro nelle vene: tra passione, superstizione e sogni sospesi
Francesco, il teatro nelle vene: tra passione, superstizione e sogni sospesi

Francesco, il teatro nelle vene: tra passione, superstizione e sogni sospesi

Quel piccolo ritaglio è imbevuto di frotte di passi, una spolverata di superstizione e pensieri veloci. Sfreghi la fronte congiungendo indice e pollice, come se la concentrazione fosse un inquilino che gli devi scampanellare tre volte, per farlo alzare dal divano. D’un tratto, ci sei. Touché. Il sipario si srotola. Il sangue erompe nelle vene. Socchiudi gli occhi e il cuore tintinna più forte nel petto. Quella tensione positiva dissolve l’ansia e crea dipendenza. Metti un piede sul palcoscenico, poi l’altro. Sbirci il pubblico senza lasciarti intimorire. Adesso sei davvero a casa.

Ti chiami Francesco Nutini. Hai un sorriso largo che ispira simpatia, abbinato ad uno sguardo benevolo e ad una nuvola di capelli che ormai sembrano una propaggine della tua persona. Fai teatro da quindici anni e questo, probabilmente, è il momento peggiore di sempre. Certo, queste cose le sai già. “Quando la pandemia è esplosa – racconti – ho deciso che dovevo comunque reagire, cercando uno spiraglio positivo. Così mi sono immerso nella formazione personale, per migliorarmi come persona e come attore. Mi chiedi cosa ho fatto? Ad esempio, ho perfezionato il mio inglese, perché molti provini non sono in italiano e non vorrei perdere delle buone chance. Sai che oggi dobbiamo farli tutti in video? Penso che si perda un bel pezzo di magia: a casa puoi registrare mille volte, mentre dal vivo hai una sola possibilità e devi dare tutto”.

Francesco, un bagaglio di sogni da aprire sul palcoscenico (Ph: Federico Giammattei)

Poi è arrivato anche il momento giusto per affinare ulteriormente la tecnica. A trent’anni, con un bagaglio denso di esperienze che preme con foga sulle spalle, hai pensato di essere tutt’altro che arrivato. “C’è questa tecnica – spieghi sciorinando con disinvoltura lo spelling – che volevo provare da tanto. Si chiama Chubbuck e ti permette di vedere la professione con altri occhi. Con la mia insegnante ci muoviamo tra obiettivo di scena e finalità complessive del personaggio, proviamo la sostituzione (una figata atomica: se non riuscite a provare quell’emozione per l’attore che vi sta davanti, provate a immaginare una persona della vostra vita, ndr) ed i monologhi interiori, che percorrono strade parallele rispetto a quello che esce dalla tua bocca. È un lavoro intenso, volto a ricercare la verità”.

Certo, come succede agli sportivi, l’allenamento è una cosa, ma la partita è tutto un altro film. Ora rimescoli la mano tra i capelli ed assumi un’espressione pensosa. Ehi, non c’è nulla di cui preoccuparsi: abbiamo tutti paura, siamo umani. Forse è proprio questo che ci trasfonde energia. “Sai, a volte mi domando se quando torneremo in scena sarò sempre quello di prima. Se avrò perso qualcosa. Lo so che non è un pensiero razionale, ma mi viene naturale”.

È in questi casi che ricordarsi da dove sei partito ti restituisce fiducia. Inforca gli occhiali, ammesso che ti servano, e gira indietro di quindici anni le lancette. Eccoti lì, guarda! Sei il tizio che scuote la testa. “È l’ultima volta che faccio una cosa come questa”, mormori. In paese ti hanno chiesto di dare una mano per una rappresentazione. E te sei titubante perché senti la tensione del confronto con il palcoscenico. Quelle decine di sguardi che si infrangono su di te, per ispezionarti. Sei nudo. Un nodo alla gola ostruisce i pensieri. Eppure, non puoi farne a meno.  Diventa il propellente che ti riporta sul palco. “Pensavo di farmi un solo giro di giostra, invece non sono più riuscito a scendere. Dopo qualche tempo ho conosciuto la compagnia la Compagnia de’Sonati, I Postumi Teatro, quindi il Teatro Giovani di Lucca. A conti fatti, sono felice di continuare a girare in tondo”.

Una necessità, più che una scelta consapevole. Con certe cose ci nasci e non puoi mica grattarle via. Durante il lockdown iniziate a buttare giù un nuovo testo teatrale: l’idea è di Nicola Cosentino, ma te, Emanuele Giorgi e Agnese Manzini scodellate spunti con gli ammennicoli per limarne i lati più ruvidi. Ora è già una commedia pronta a fare quattro passi fuori. Quando tutto sarà finito, la porterete in giro. “Ho fatto molti workshop – frughi tra i ricordi – e uno, in particolare, con Alessandro Bertolucci. A lui mi lega anche una collaborazione con le sue associazioni, Experia e Doppio sorriso: cambiare anche soltanto di un grammo la giornata di chi è costretto in ospedale ci ripaga di ogni sforzo”.

Adesso non vedi l’ora di tornare sul palco, dal vivo. Sicuramente, ti ritaglierai quella fortezza invisibile prima di salire. Un rettangolo dove nessuno può arrivare, un rito pagano di cui non puoi fare a meno, perché anche se è irrazionale ti passa sicurezza. “Tutti gli attori hanno le loro scaramanzie. Trenta secondi prima di entrare in scena facciamo i conti con le nostre credenze e poi iniziamo a muoverci. Il corpo e la gestualità sono fondamentali. Film o teatro, dici? Parliamo di due modi differenti di interpretare la recitazione. Entrambi lavorano con i sentimenti, ma l’attore teatrale deve recitare con tutto il corpo, con gesti che devono essere visibili anche dall’ultima fila. Certo, anche al cinema usi tutto il corpo, ma la telecamera può inquadrare solo un dettaglio, magari uno sguardo, e con quello devi essere capace di comunicare tutto. Personalmente, gli interpreti del cinema che amo di più vengono proprio dal teatro”.

“Film o teatro? Credo che l’attore teatrale sia più completo” (Ph: Federico Giammattei)

Oggi la vita di un attore assomiglia ad un interminabile tempo sospeso. Vorresti tornare a scoprire nuovi universi, a calarti nei personaggi. La tua agenzia romana, guidata da Tiziana Deodato, ti contatta per fare provini e tu continui a dare tutto, ma ti piacerebbe tanto girare la manopola su “Ok, normalità”. Nel frattempo hai anche iniziato a ballare e tra poco prenderai lezioni di canto. Hai fatto corsi di doppiaggio e speakeraggio. Di sicuro, non hai gettato la spugna. Quella scintilla arde troppo in profondità per essere spenta.

“Mentre attendiamo che le cose tornino come le conosciamo – confessi – mi rimpinzo di film e musica buona. Il nostro è un mestiere che richiede di rubare qualcosa a chi è più bravo: penso a Pierfrancesco Favino, Alessio Boni, Maurizio Lombardi (Francesco frequenta la sua Palestra per attori a Firenze, ndr), Proietti…è anche a causa loro se ho iniziato. Non posso poi non citare i maestri più vicini a me, fonte di ispirazione e sostegno costante: Nicola Fanucchi, Ugo e Agnese Manzini. Nel frattempo lascio che Bruce Springsteen, Chris Cornell o un musical come Notre Dame mi passino sussulti positivi. Ieri mi sono anche rivisto Hugh Jackman mentre canta: certi personaggi sanno trasmetterti vibrazioni positive”.

Chiudi gli occhi, via da un presente punteggiato di incertezze. Sei di nuovo lì, in quel fazzoletto di movenze, un istante prima di entrare. Le luci amichevoli del palcoscenico ti ammiccano senza ritegno. Ehi, non guardare indietro. Tanto non puoi scappare da qualcosa che hai dentro. Metti un piede sul palco, poi l’altro. Un altro pubblico che ti crivella di sguardi. Un personaggio che chiede di vivere dentro di te. Quel sorriso che torna finalmente ad allargarsi.