Destino, volontà e fortuna: in viaggio con Miriam Bianchi dentro al Fashion design

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Destino, volontà e fortuna: in viaggio con Miriam Bianchi dentro al Fashion design

Destino, volontà e fortuna: in viaggio con Miriam Bianchi dentro al Fashion design

Miriam indossa lo sguardo deciso di chi sa già perfettamente cosa vuole a soli ventidue anni. Una rarità che crea una pausa dai pensieri incerti di una generazione che convive con le attenuanti legittime dell’età e di un’epoca che assomiglia ad una pellicola finita in perenne stand by.
Armata di un sorriso sicuro, apre la maniglia e ti invita ad accomodarti per mezz’ora dentro la sua vita, per raccontare le passioni che la sferzano internamente, come una fiamma che si autoalimenta, fino a deflagrare in urgenza espressiva. Quel concentrato di sussulti in cui è finita piacevolmente incastrata si gira di scatto se lo chiami con il suo nome: fashion designer
Sì, lo so. Il nome magari non ti restituisce immediatamente il senso della sua missione, ma finitela di gingillarvi con i preconcetti, stappate una bottiglia di vino e addentratevi dentro la storia. 
“Ti sembrerà surreale – fruga tra le tasche del tempo mentre assume un’aria pensosa, il caffè bollente nella mano destra – ma io sono praticamente nata disegnando abiti. Credo fermamente che si tratti in buona parte di geni, ma non penso che basti una sorta di predestinazione. Nemmeno il talento può aiutarti a cogliere gli obiettivi, da solo. Devi accompagnarlo a una determinazione feroce e ad un pizzico di fortuna”. 
Ok, i pilastri sono stati apposti. Il basamento è solido, a dispetto della carta d’identità. Le idee nitide: se avessi avuto soltanto un quarto di queste certezze a quell’età, probabilmente oggi starei digitando questo pezzo dalla Casa Bianca. Ah, quasi dimenticavo. C’è un altro lato che ti conquista subito, in questa giovane ragazza dalle movenze eleganti: è composta, raffinata, munita di ventaglio linguistico che ti avvolge con disinvoltura. Se non fosse che per la macchina del tempo bisognerà aspettare ancora qualche fine settimana, diresti che è piombata qui da un decennio a caso dell’Ottocento. 
“Ho sempre avuto questa passione per la moda, per disegnare abiti. In fondo, mi bastavano soltanto un foglio di carta e una matita. Alle elementari – sorride – riadattavo i grembiuli bianchi della classe. Più tardi ho pensato che sarebbe stato utile abbinare una certa dose di pragmatismo alla creatività: è per questo che mi sono iscritta a ragioneria, anche se non ero troppo convinta. A volte devi fare anche cose che ti piacciono meno, per esaudire i tuoi desideri”. Touché: sacrificarsi per arrivare. 
Finite le superiori, la nuova vita assume le incantevoli sembianze di Firenze. Casa ha la facciata della scuola di Fashion Design (Accademia italiana di arte, moda e design). Esattamente dove dovevi essere. “Un percorso duro – ricorda – anche perché sono una di quelle persone che deve fare sempre tutto al massimo. Per questo mi è dispiaciuto molto non aver potuto preparare la sfilata di fine corso, a causa della pandemia. È stata una circostanza che mi ha fatto stare male, anche perché quella era un’occasione in più per farsi conoscere, questi eventi accolgono spesso importanti giornalisti ed autorità del settore. Voglio comunque finire quei capi, anche se la sfilata non si farà: oggi li guardo con un po’ di rabbia, ma abbattersi non rientra decisamente nel mio carattere”. 

 

Nel frattempo Miriam si sta proponendo ad aziende affermate, anche se il momento certo non è esattamente un acceleratore di risultati. Dopo che avrà maturato un’esperienza più solida, rivela, le piacerebbe aprire una boutique tutta sua. “Molti oggi non rispondono, oppure ti dicono che al momento non hanno posizioni aperte a causa della crisi. A fronte di collezioni e sfilate saltate è del tutto comprensibile, ma io non ho alcuna intenzione di arrendermi”. 
Scansando l’intruglio di voci che ispeziona il bar, il pensiero disegna progetti ancora più circostanziati: “Vorrei comunque rimanere in Toscana, magari a Firenze, perché la culla del design è proprio qui. Questo non significa che non intendo aprirmi ad esperienze formative all’estero e, comunque, bisognerà capire se questo Paese ha davvero intenzione di puntare sui giovani oppure no: se non lo fa, per me, è destinato a morire”. 
Il caffè è sorseggiato, ma c’è ancora spazio per un altro giro di giostra dentro questo personalissimo universo. Miriam sistema una ciocca di capelli dietro al lobo dell’orecchio ed arriva dritta al punto: “Credo che chi sa solo di moda non sappia nulla di moda. È per questo – la rivelazione che spiega molto di lei – che mi interesso da anni di letteratura, storia, filosofia, arte. Un’insieme di forme espressive che in influiscono sui miei progetti”. 
Oggi Miriam Bianchi sfrega i pensieri e concepisce nuove idee. Poi recupera i materiali utili, le stoffe, oppure abiti da riciclare. Quindi taglia, cuce, crea. La sua ultima collezione è un viaggio al confine tra due dimensioni storiche che si intridono a vicenda, ispirata com’è alle cadenze ipnotiche del Flamenco spagnolo e alle imperiose divise degli Ussari napoleonici. Un biglietto da visita abitato da un sapere artigianale, striato dal concetto di recycling e da uno sguardo acuto, che declina al presente atmosfere antiche. 
Fuori il cielo è ancora d’acciaio ed un vento invernale lavora di lato il suo cappotto rosso. Miriam però cammina sicura dentro questi tempi confusi, i passi guidati da quella fiamma interiore che conosce esattamente la destinazione