Dimentichiamo per un attimo gli strumenti musicali così come li intendiamo noi. Mettiamo da parte il pianoforte a coda, il flauto che, più o meno tutti, abbiamo imparato a suonare a scuola e perfino la chitarra che spesso ci ha tenuto compagnia davanti a un falò estivo. Proviamo a raggiungere terre lontane, per geografia e per tradizioni, a immaginare suoni molto diversi da quelli a cui siamo abituati, prodotti in un modo per noi non convenzionale. Ritmi che accendono espressioni, repertori che nascondono culture, forme artistiche che nascono da spinte sociali. Travalichiamo le barriere, le ideologie, gli idiomi e godiamoci la musica come linguaggio universale che non ha confini.
È a tutto questo che dà voce, attraverso il suo lavoro, Gianluca Chelini, 30 anni, dottore magistrale in musicologia e oggi dottorando in Storia e Analisi delle Culture Musicali all’Università Sapienza di Roma. Nei suoi viaggi di ricerca, con destinazione Indonesia e Cambogia, di esperienze distanti dall’approccio occidentale ne ha vissute parecchie. «Fra queste, suonare il khong wong, tradotto “cerchio di gong” –. racconta – Costituito da piccoli gong posizionati in serie per altezza su una struttura in legno, è utilizzato nell’orchestra pin peat, la tipologia di ensemble musicale che accompagna le celebrazioni religiose buddhiste e animiste in Cambogia».
Già, perché il suo mestiere è una finestra aperta sul mondo. Un’emozione in grado di arrivare dove vuole.
Diventarne parte, spogliarsi delle convinzioni, farsi contaminare è un viaggio nel viaggio. «Ecco cosa indaga un “etnomusicologo”, o per meglio dire “antropologo della musica” – spiega Gianluca – Con il mio lavoro, studio la musica e la società. Provo a comprendere, cioè, con la ricerca “sul campo”, dai Pub dove si fanno Jam Session ai funerali dei monarchi, quali siano la funzione, il ruolo e i significati delle attività musicali all’interno di una determinata società».
Curiosità, ispirazioni, canti, riti, vibrazioni, composizioni, sensibilità: tutto è oggetto di analisi. «Credo che fare ricerca, che sia socio-umanistica come quella che faccio io o di qualsiasi altro tipo, sia una sorta di medicina contro l’inquietudine – afferma – Si fa ricerca perché non si è trovato qualcosa, ci mancano delle risposte, come individui e come collettività. Quello che amo del mio lavoro è proprio questo: la voglia di mettersi in gioco ogni volta con una nuova domanda». La parola d’ordine quindi è “quesito”. Uno, due, mille. Non dare niente per scontato, approfondire, curiosare, ficcare il naso, insomma. Anche quando la soluzione sembra lampante, anche quando la verità traspare lì, davanti agli occhi, non accontentarsi. Scavare. «Eppure, certi meccanismi attuali dell’accademia rischiano di minare tutto questo, perché invece che insistere sulle domande, essi sono interessati solo alle risposte – riflette Gianluca – è giusto e comprensibile, ma non deve soffocare la nostra fantasia in nome della produttività. Come sarebbe oggi il mondo se, invece che cercar di capire perché la mela gli era caduta in testa, Newton si fosse accontentato di mettersi un casco?».
Battute a parte, cercare sempre la giusta chiave di lettura – o di violino, per restare in tema. Proprio quello che ha dato il via alla sua passione per la musica, quando, nel 1998, iscritto alla scuola di musica Sinfonia, si è trovato a scegliere lo strumento a cui dedicarsi. «Un punto di partenza che ha significato molto, fra anni di studio, concerti e amicizie meravigliose» e che gli è valso un diploma di conservatorio proprio in violino. «Intanto, durante gli ultimi anni di Liceo ho cominciato a chiedermi in maniera sempre più frequente cosa mi piacesse della musica. La risposta ancora non ce l’ho, ma da lì è iniziato un percorso di riflessione più ampio sul significato che questo strano oggetto ha per l’essere umano». Un po’ come quei pezzi di un puzzle che inizi a riordinare partendo dagli angoli, ma che alla fine formano quel disegno che è sempre stato lì, davanti a te. «Di solito, tra il serio e il faceto, dico che tutto è iniziato guardando i documentari di Geo&Geo che andavano in onda su Rai Tre sul finire degli anni ‘90. Non credo sia del tutto vero, ma certo quelle furono le prime occasioni in cui ebbi notizia dell’esistenza di persone che fanno le cose in maniera radicalmente diversa da come le facciamo noi, e da lì una certa vocazione antropologica».
Purtroppo mettere insieme tutto, a tratti non è stato facile e, negli ultimi tempi, qualcosa è rimasto indietro. «Il mio rimpianto più grande è il non essere riuscito a portare avanti la mia attività di violinista – spiega – Avrei voluto continuare a suonare di più. Non per farne una professione, ma per il gusto di suonare. Un importante etnomusicologo e sociologo della musica, Marcello Source Keller, alcuni anni fa ha scritto un “elogio del dilettantismo (e del suonar male)” in cui spiega l’importanza di far musica per stare con noi stessi e con gli altri. Spero che, finita la fatica della tesi dottorale, riuscirò a trovare il tempo per rimediare a questa mia mancanza». La pandemia, infatti, l’ha costretto a cambiare un po’ i programmi, impedendogli di tornare a fare ricerca etnografica sul campo. “Avevo pianificato alcuni mesi di permanenza in Cambogia per finire qualche ricerca lasciata a metà nel 2018, ma ovviamene non c’è stato modo».
Imprevisti a parte, a chi gli chiede cosa si auguri per il futuro, risponde deciso «Da un punto di vista professionale, oltre alla non scontata speranza di poter continuare a far ricerca, uno dei miei obiettivi è di provare a rendere utile alla collettività alcune delle riflessioni fatte dall’etnomusicologia nel suo secolo di storia. Penso, ad esempio, agli studi che hanno sottolineato la centralità della musica nel benessere e nella coesione delle società. Avremmo bisogno di riattivare qui da noi, anche a Lucca, un discorso in tal senso». Un auspicio, ma anche – e soprattutto – una presa di posizione. «Si tratta, tra le altre cose, di una sfida politica che suggerisco ai musicisti e agli artisti in questo periodo di grave crisi – conclude – rivendicare i propri diritti non solo come produttori di punti di PIL, ma anche e soprattutto come protagonisti di un lavoro di cura degli individui e delle comunità, quanto mai necessario in momenti di sofferenza come quelli che stiamo vivendo».
(Nella foto in alto, Gianluca Chelini sta suonando un “roneat ek”, strumento musicale cambogiano).
