Puccini ‘teologo’. Un dramma d’amore e di redenzione

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Puccini ‘teologo’. Un dramma d’amore e di redenzione

Puccini ‘teologo’. Un dramma d’amore e di redenzione

Articolo di Michele Bianchi

Pubblicato come: Michele Bianchi, Puccini ‘teologo’. Un dramma d’amore e di redenzione, in: Florilegium Musicae. Studi in onore di Carolyn Gianturco, a cura di Patrizia Radicchi e Michael Burden, I tomo, ETS, Pisa 2004, pp.37-47.

Nella Nota preliminare al libretto della settima opera di Giacomo Puccini, si legge: «La Fanciulla del West [è un] dramma d’amore e di redenzione morale in uno sfondo fosco e grandioso di anime». Se non è certo una novità vedere privilegiata da Puccini una storia dove protagonista è l’amore, è da rilevare come la tematica chiaramente esplicitata della «redenzione morale» farà di Fanciulla un unicum nella produzione del compositore lucchese. Che essa sia stata fortemente ricercata e voluta da Puccini lo conferma egli stesso:

Nel dramma di Belasco, ad esempio, dal quale ho tratto l’opera […] era stata data assai piccola parte all’elemento redentore della protagonista: io fui che volli dai librettisti uno sviluppo maggiore di esso, onde apparisse più evidente, più sincero questo desiderio di purificazione, questo anelito affannoso verso una pace conquistata con l’amore e l’operosità.1

Tale confessione illustra la distanza che intercorre fra la redenzione nel Parsifal wagneriano ed in Fanciulla. Michele Girardi accenna ad una relazione fra le due opere,2 ma, mentre nella prima fra amore e redenzione il rapporto è inversamente proporzionale, nella seconda è diretto. Amfortas sconta la debolezza di un momento, su Kundry pende una maledizione di stampo ninfomaniaco, mentre Klingsor si è autoevirato per desiderio di santità. L’inclinazione sessuofobica è evidente anche in Parsifal stesso: al bacio di Kundry segue un dolore fisico straziante, ma l’estasi di cui egli è subito preda lo conforta che il suo cammino redentore deve passare per il rifiuto del desiderio.

Se influenza profondamente Wagner, la negazione della ‘volontà’ (volontà rappresentata in massimo grado dall’appetito sessuale) come strumento di attenuazione del dolore professata da Schopenhauer non sfiora minimamente La Fanciulla del West. A differenza di quello fra Kundry e Parsifal, il bacio fra Minnie e Johnson rende i protagonisti felicemente «dimentichi di tutto e di tutti». Come teologia insegna, l’amore terreno non contrasta con quello celeste ma lo prefigura: dal punto di vista etimologico, la «suprema» verità d’amore invocata ripetutamente da Minnie è quella ‘posta più in alto’ rispetto ad una di grado inferiore ma della medesima sostanza. Sonora certifica ciò quando conclude: «Le tue parole son | di Dio. Tu l’ami come | nessuno al mondo!»

Che Puccini sia effettivamente intervenuto nella stesura del libretto de La fanciulla lo attesta Guelfo Civinini in una lettera aperta pubblicata sul «Giornale d’Italia» pochi giorni prima del debutto dell’opera al Metropolitan di New York (10 dicembre 1910):

Un libretto è un libretto, sta bene, ed io non ho mai avuto neppur lontanamente l’idea di poter consacrare con questo una qualsiasi mia piccola fama di poeta; ma un libretto destinato a servir di trama all’ispirazione di un illustre maestro com’è Giacomo Puccini, non è un libretto come gli altri: per un rispetto al maestro stesso, che pure vi ha collaborato, deve, a parer mio, pur rimanendo un libretto, rispettare almeno le regole più elementari della metrica e del buon gusto. Padronissimo il musicista, nel volo delle sue note, di accomodare poi qualche sillaba a servizio dei suoi ritmi. La musica bella sana tutte le amputazioni e il pubblico che ascolta non se ne accorge. Ma c’è anche un pubblico che legge e che trovandosi degli endecasillabi come questo: «e nel delirio credevi in me vedere» [in effetti 12 sillabe] deve sentirsi venire il singhiozzo, e deve giustamente pensare che tutti quei piedi che avanzano sarebbe il caso di applicarli, magari a ritmo di valzer, in fondo alla schiena dei librettisti.3

Come al solito dunque, Puccini interviene pesantemente nella gestazione librettistica, sia a livello di impostazione generale sia imponendo ai poeti delle varianti non improntate tanto alla ricerca di eufonia metrica quanto, evidentemente, a funzionalità drammatica. 

Esaltata da Puccini in prima persona, l’azione moralizzatrice della protagonista si esterna chiaramente nel primo atto, non solo quando tiene la lezione di religione ai minatori, ma anche quando rintuzza le avances di Johnson. Minnie tira dunque le fila in chiusura di terzo atto, evitando l’impiccagione del suo uomo e ribadendo agli ‘inquisitori’ i princìpi che devono reggere una comunità. Il tema della redenzione morale è dunque manifesto, ma si presta anche a letture più raffinate. Allan Atlas nota come «there are three words «lontano», «tornare» and «redenzione» that, through both frequent repetition and strategic musical-dramatic placement, take on the character of “verbal leitmotives”».4 Atlas conclude che «with her direct quotation [es.1 (III, 42, -2/1) ed es.2 (III, 43, -4/3)] of Jake’s melody (es. 3: I, 20 sgg), Minnie has finally arrived at the musical goal toward which she has been steadily moving: “lontano – tornare – redenzione”».5 Il ragionamento del musicologo americano è sostanzialmente logico ed accettabile. Nel suo saggio però non si esplicita perché il concetto di redenzione debba essere necessariamente rappresentato dalla «folk-like melody» cantata dal cantastorie Jack all’inizio del primo atto. Questa intuizione, assolutamente condivisibile, deve dunque essere articolata sul versante drammatico.

E’ constatabile «come Puccini tendesse a costruire l’esito dei suoi lavori concedendo largo spazio alle reminiscenze».6 Si concorda inoltre che «mai una sua conclusione manca di logica, e giunge sempre come una conseguenza ineluttabile di quanto era già accaduto».7 Il difetto delle guide all’opera è rilevare pedissequamente i ritorni di un tema senza tentare mai di spiegarne il perché, nonostante Puccini li connoti come «logici».8 Interessa dunque indagare se un autore lucido e riflessivo come Puccini abbia inteso estendere la tematica della «redenzione morale» alla più ampia orbita drammaturgica. Si tenterà quindi di comprendere se questa problematica interessi direttamente la partitura di Fanciulla, oppure se essa rimanga una mera dichiarazione d’intenti confinata esclusivamente alla trama librettistica. La lettura sarà così tesa a rilevare il sottile ma implacabile raziocinio sotteso ad un’opera che ha una precisissima fisionomia nell’universo creativo pucciniano, sempre incline a piegare la musica a totale servizio della rappresentazione teatrale.

Nel primo atto de La fanciulla del West, all’interno della Polka, i minatori, in attesa di Minnie, bevono e giocano a carte. Cantando una nostalgica canzone (es. 3: I, 20 sgg), giunge Jake Wallace, «il cantastorie del campo!». Accompagnandosi alla chitarra, si chiede: «che faranno i vecchi miei | là lontano». Si dà comunque una risposta: «Piangeranno, | penseranno | ch’io non torni più!».9 Lasciato il gioco, i minatori sono progressivamente affascinati dal musico, che canta una madre sofferente per la lontananza del figlio emigrato: «La mia mamma… | … che farà | s’io non torno, | s’io non torno? | Quanto piangerà!». Il riferimento al cane («[…] dopo tanto | […] mi ravviserà?») ed alla casa «al rivo accanto» è tanto struggente che Jim Larkens esplode: «Non reggo più | […] Son stanco di piccone e di miniera! | Voglio l’aratro, vo’ la madre mia!» La spiegazione del comportamento abbattuto di costui era stata offerta poco prima da Nick: «Il suo solito male. Nostalgia. | Mal di terra natia! | Ripensa la sua vecchia Cornovaglia | e alla madre lontana che l’aspetta…». Questo dilungarsi sulla ipersensibilità a sfondo lacrimevole di uomini che ci si aspetterebbe più rudi per le crude vicissitudini sofferte è piuttosto sospetto, anche per un compositore decisamente incline al larmoyant come Giacomo Puccini.

Poco oltre, si trova Minnie a fare scuola di religione ai minatori: ella cita dal «Salmo cinquantunesimo, di David», e conclude «che non v’è, | al mondo, | peccatore | cui non s’apra una via di redenzione…». Minnie sottolinea in chiusura: «Sappia ognuno di voi chiudere in sé | questa suprema verità d’amore». Proprio su quest’ultimo verso l’orchestra si distende nella melodia che caratterizza la canzone di Jake Wallace (es.4: I, 52, + 8 sgg). Come mai la «suprema verità d’amore» è abbinata da Puccini ai «vecchi», alla «mamma», al «cane» ed alla «casa»?

Disdegnando il concetto di «ritorno logico», qualcuno potrebbe dire che la ricomparsa dei motivi musicali ha in Puccini caratteri non solo di asemanticità ma anche di casualità.10 Altri potrebbero invece invocare intenti strutturali, capaci di conferire un’omogeneità esclusivamente sul versante musicale, ancora una volta senza nessun intento di significare alcunché. E’ invece da ritenere che le intenzioni strutturali defunzionalizzate a livello semantico possono eventualmente essere attuate e veicolate non tanto da motivi ben caratterizzati, ma eventualmente da cellule melodiche o da gesti armonici, come gli «spezzatini» citati da Puccini ai tempi di Bohème.11

Che l’abbinamento fra «suprema verità d’amore» e la nostalgica melodia cantata da Jack Wallace sia programmato è confermato dal fatto che quest’ultima è ‘centellinata’. Oltre che nei due momenti del primo atto appena ricordati, essa farà una fugace ricomparsa in chiusura del terzo atto, quando Minnie e Johnson danno l’addio ai minatori ed alla California (es. 5: III, 44, +15). Questa parsimonia nell’utilizzo della melodia del cantastorie non può dunque avere nessuna funzione di collante strutturale, ma denota invece un uso assolutamente ponderato. Se non ha risultanze extra-semantiche, tale intenzionalità va dunque esplicitata sul versante dei significati.

Oltretutto, il motivo ‘della nostalgia’ era comparso subito all’inizio dell’opera, quando «un baritono» lo intona in 6/8 mentre la didascalia precisa «interno-voce lontana» (es. 6: I, 2, +7 sgg). Già la presenza in apertura ed in chiusura d’opera conferisce al motivo un deciso rilievo che non può essere ascritto solo all’inclinazione per la simmetria e dunque per un’organizzazione formale che Puccini effettivamente mai disattende. Una spia è senz’altro l’indicazione «interno-voce lontana», che imparenta strettamente Fanciulla con l’immediato precedente di Madama Butterfly. «Interno, lontano, a bocca chiusa» è infatti la didascalia che presiede al ‘coro muto’, fulcro e momento di svolta dell’intera opera.12 Puccini non poteva adottare dunque a cuor leggero delle connotazioni che in Butterfly avevano avuto risvolti di capitale importanza.

La «suprema verità d’amore» cui fa riferimento Minnie0 quella per cui «non v’è, | al mondo, peccatore | cui non s’apra una via di redenzione…», permette all’uomo di liberarsi dallo stato di sottomissione al male e di percorrere le strade del bene. Il messaggio della rivelazione cristiana vuole un transito terreno che riporti alla casa del Padre. Ciò spiegherebbe perché Puccini commenti le parole di Minnie con la melodia del cantastorie. Jake Wallace ha rievocato il calore di un ambiente familiare che sembra ormai perduto («… chi ti rivedrà?») ma che è invece ancora recuperabile, come dimostra il nostalgico Larkens. Se ci si allontana dal piano denotativo per percorrere le strade della metafora, non sarà improbo riconoscere che «i vecchi miei», «la mia mamma», «il mio cane» e la «mia casa, al rivo accanto» sono immagini di una pace e di una serenità che ben si prestano alla proiezione escatologica. Lo stesso «rivo» sembrerebbe correlarsi all’immagine biblica della «fonte», intesa come momento originario dell’esistenza umana che vi si allontana ma che ne è pur sempre alimentata.13 La «suprema verità d’amore» può così essere puccinianamente interpretata come nostalgico anelito dell’uomo che, alla ricerca della propria identità, sente di dover rimettersi in cammino verso il Luogo Natio.14

Nella scena «della nostalgia» non è però mai citata esplicitamente la figura paterna, mentre assume un deciso rilievo quella della madre. Wallace narra infatti della tristezza di colei che, per rendere meno opprimente il tempo che le rimane da vivere, tesse «lino e duolo | pel lenzuolo | che la coprirà». Larkens rimane evidentemente colpito dall’immagine narrata dal cantastorie, e chiude il suo disperato appello con «vo’ la madre mia!». Questo reiterato riferimento alla figura materna in una società almeno apparentemente ancora di stampo patriarcale (quella americana della metà del secolo diciannovesimo narrata ne La fanciulla del West e quella italiano/europea degli inizi del secolo ventesimo in cui vive Puccini) conferisce un’insolita amabilità alla scena.

Non è la prima volta che un artista coglie l’aspetto materno del Dio cristiano: ne Il ritorno del figliol prodigo (1680), Rembrandt attua questa intuizione con modalità assolutamente straordinarie. Le mani del padre che abbraccia il figlio ravveduto sono infatti diverse: più tozza e robusta la sinistra è decisamente maschile, mentre la destra, più affusolata e gentile, ha caratteri spiccatamente femminili. Rembrandt prima e Puccini poi sembrano dunque sintonizzarsi con il coacervo originario che caratterizza il Dio misericordioso del Nuovo Testamento:

Il lettore moderno perde buona parte della forza del testo originale, perché là [nel Nuovo Testamento appunto] dove si parla di commozione, non coglie l’allusione all’utero materno (in ebraico rahamim indica l’utero ed è tradotto con ‘misericordia’, ‘compassione’, ‘tenerezza’), simbolo efficace di amore, sensibilità, donazione.15

Ricordando la portata del concetto di ‘commozione’ nella poetica di Giacomo Puccini e la centralità della figura femminile nella sua opera, si scopre quanto tali strumenti alimentino pur sotterraneamente il circolo virtuoso che involve il compositore nelle spire della fede.16 

La folgorazione pucciniana di un’immagine divina meno severa e quindi più in sintonia con lo spirito evangelico che con aspetti veterotestamentari, sarà addirittura esplicitata ai giorni nostri dagli ultimi pontefici. All’«Angelus» del 10 settembre 1978 papa Giovanni Paolo I, da poco eletto, espresse un concetto che provocò un certo sconcerto nel mondo cattolico: «Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. E’ papà; più ancora è madre».17 La riflessione sull’amore materno che Dio ha per le sue creature è stata raccolta nuovamente il 20 gennaio 1999 da papa Giovanni Paolo II. Egli la sostanzia con riferimenti tratti dall’Antico Testamento, dove la parola di Dio assume invece spesso toni ed atteggiamenti inflessibili nei confronti dell’uomo:18

Anche se rare le immagini dell’Antico Testamento in cui Dio si paragona ad una madre sono estremamente significative. Si legge ad esempio nel libro di Isaia: «Sion ha detto: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato.” Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno?» (Is 49, 14-15). […] E ancora: «Come una madre consola il figlio così io vi consolerò». (Is 66,13)19

Queste due citazioni da Isaia sembrano dunque strettamente imparentate con la splendida intuizione pucciniana, che sposa la «suprema verità d’amore» all’immagine di una famiglia guidata dal dolce istinto materno. Non praticante ma a suo modo religioso, non dotto e non intriso di studi teologici, con uno straordinario salto logico dettatogli dal suo istinto e dal suo eccezionale ingegno, Puccini scavalca comode interpretazioni del messaggio biblico per centrarne lo spirito.

La raffinatezza intellettuale di Puccini merita ulteriori dimostrazioni della disinvoltura con la quale sa muoversi non solo nell’universo sonoro, ma anche e soprattutto in quello più specificamente drammaturgico. Nel terzo atto, con Johnson sul punto di essere impiccato, Minnie rinfaccia ai minatori la propria abnegazione nell’averli aiutati e serviti. Ricompare dunque (es. 8: III, 38 sgg) il tema udito nel primo atto (es. 7: I, 43, -4 sgg) quando ella minaccia di non fare più scuola per le intemperanze in sua assenza. Con umili omaggi, gli uomini cercano così di rabbonirla: chi con un mazzolino di fiori, chi con un nastro o con un fazzoletto di seta. Il ritorno di un tema melodicamente poco incisivo e dunque non memorabile, collocato oltretutto a grande distanza, conferma la capacità di dissimulare con minimi gesti una teatralità tutta intellettuale e dalle risonanze evidentemente ermetiche. Con un’eleganza sua tipica, Puccini riesce cioè ad esplicitare ‘il profondo’ di situazioni sceniche che ‘in superficie’ sembrerebbero di altra fisionomia.20 Per i minatori Minnie si è rivelata un’amica preziosa, ottima confidente e guida morale in un’esistenza durissima. Ella è stata un dono prezioso per questi emigranti in cerca di fortuna. Non deve dunque sorprendere che si abbini il tema ‘degli omaggi’ (es. 7: I, 43, -4) al momento in cui la ragazza irrompe a difendere la vita del bandito (es. 8: III, 38 sgg). 

Dopo che Minnie ha affermato «Ora quest’uomo è mio | com’è di Dio!», il tema risuona adesso nitidamente sulle parole «Dio nel ciel l’avea benedetto» (es. 9: III, 39, +1 sgg). Non casualmente, in quanto Johnson è stato per lei il più grosso regalo che Nostro Signore le poteva fare. Quel regalo d’amore cui ella anela nel primo atto: «La vedevo [la mamma] | serrar furtiva il piede al babbo mio… | S’amavan tanto!… Anch’io così vorrei | trovare un uomo; e certo l’amerei». Quindi Minnie, che si è vista oggetto di attenzioni nel primo atto, non può non pietire la vita del suo amato quale ultimo ma decisivo dono da parte degli amici di sempre. Il tema ‘degli omaggi’ risuona dunque nel momento in cui ella reclama di fronte alla comunità dei minatori l’ultimo e più vero omaggio che le può essere fatto: l’‘omaggio’ che «Dio nel ciel […] avea benedetto».

Poco oltre, ormai sicura di aver fatto breccia nell’animo degli uomini, Minnie canta: «Ecco; getto via quest’arma! Torno quella | che fui per voi, l’amica, la sorella | che un giorno v’insegnò | una suprema verità d’amore». Puntualmente risuona il tema (es. 10: III, 43, +10) che sin’adesso ha punteggiato le situazioni in cui, dal bacio che Minnie concede a Johnson, campeggia il fortissimo sentimento che conduce ineluttabilmente l’uno verso l’altro (es. 11: II, 27, +3). Veicolando il tema ‘dell’amore terreno’ nell’orbita della «suprema verità d’amore» cristiana, Puccini chiude così il cerchio originato dalle prime battute de La fanciulla del West. Il breve preludio si fonda su due temi, che il corso dell’opera permetterà di definire «della redenzione» (es. 12: I, 1, -12 sgg) e «dell’amore» (es. 13: I, 1, +12 sgg; vedi II, 27,+3). Tesi ed antitesi che sboccano adesso nella sintesi drammaturgica in chiusura di terzo atto, quando Puccini spoglia l’amore di quei connotati esclusivamente terreni per fargli acquisire una dimensione più in sintonia con il messaggio cristiano.

Col senno di poi si comprende anche perché, caso eccezionale nell’orizzonte creativo pucciniano (con esclusione delle esordienti Le villi), la partitura richieda esplicitamente che il sipario «si alzi» solo alla fine del preludio orchestrale iniziale [es.14 (I, 2, -1)]. Il compositore ha inteso fissare i cardini tematici su cui si fonderà la vicenda che, si ricorda, il testo definisce appunto «dramma d’amore e di redenzione». Con metodo deduttivo, Puccini precisa quei postulati che originano lo sviluppo logico del dramma. Il compositore non vuole dunque che in queste primissime ma decisive fasi l’ascoltatore venga distratto dalla scena: il sipario deve rimanere chiuso perché si sia coscienti che da qui prenderà organicamente le mosse tutta la struttura drammatica.

L’emozione si è ormai impossessata di tutti, e Sonora «si avanza verso Minnie e le dice con voce commossa: “Le tue parole sono | di Dio. Tu l’ami come | nessuno al mondo! | In nome | di tutti, io te lo dono”». Nuovamente Puccini sa commentare queste parole non solo in modo assolutamente inaspettato, ma con una profondità che rivela il grande drammaturgo. Lo slancio di Sonora è infatti accompagnato dal tema (es. 15: III, 44, +1 sgg) udito nel primo atto, quando Johnson ricorda: «e provai una gioia | strana, una nuova pace | che ridire non so» (es. 16: I, 104, +13). Evidentemente il nobile gesto di Sonora, che interpreta ormai il sentimento di tutta la commossa comunità dei minatori, non solo arreca gioia ai destinatari ma anche e soprattutto agli attori, evidentemente liberati di un peso che avrebbe potuto torturarli per tutta la vita. Puccini nuovamente si fa interprete del miglior cristianesimo, che dovrebbe appunto essere animato dalla gratuità delle azioni, il cui disinteresse regala al fortunato «una gioia strana, una nuova pace», quella che appunto si direbbe campeggiare in chiusura d’opera.21

Così come all’inizio, alla fine si riascolta (es. 5: III, 44, +15 sgg) il tema ‘della nostalgia’ (es. 4: I, 53, -13), con cui la «turba accasciata» dà il mesto addio a Minnie. L’etimologia della parola «addio», ostinatamente iterata dagli amanti, ben si sposa al leitmotiv che connota la «suprema verità d’amore» nel primo atto. Interessante la citazione del tema ‘dell’unione’ (es. 17: II, 30, +4 sgg): se sottolinea l’inseparabilità di Minnie e Johnson, «Addio mia dolce terra» (es. 18: III, 44, +7 sgg) può valere anche come ricordo indelebile della California, che ha visto nascere il loro amore.

La problematica della redenzione morale è facilmente rinvenibile nel libretto de La fanciulla del West. Si è visto che non si può dire la stessa cosa per quanto riguarda la raffinatissima elaborazione musicale della tematica ‘redentrice’. Anche perché nel finale, dove si opera il suo pur prodigioso riepilogo, Puccini sembra schermirsi pudicamente evitando manifestazioni sonore eclatanti.22 I temi musicali che si incontrano a sottolineare i momenti ‘religiosi’ si sono ‘cristianamente’ rivelati di aspetto dimesso e umile, e l’assenza di altisonanza rende la chiusura di Fanciulla una delle meno memorabili del compositore lucchese.23

Esiste comunque una spia altamente rivelativa che indica come Puccini non operi scientemente a favore di un coinvolgimento totale dell’uditorio. L’ultima didascalia del libretto recita infatti:

La turba è accasciata. Alcuni sono a terra e piangono, altri appoggiati ai loro cavalli, altri agli alberi, si abbandonano al dolore, altri ancora, tristemente, fanno cenni di addio a Minnie che va allontanandosi. Sonora si lascia cadere su di un tronco d’albero e scoppia in dirotto pianto. Il pellerossa Billy è indifferente a questa scena di commozione e continua il giuoco, calmo, freddo.

Deputato ad esecutore dell’impiccagione di Johnson («Billy | ha la mano maestra!), comprato dall’oro di Nick («Questo è per te… | Ritarda a fare il laccio… | ma guai se mi tradisci!»), Billy continua il suo solitario con le carte già iniziato in apertura di terzo atto. Le didascalie che illustrano il suo comportamento, opposto a quello della comunità, ricorrono in tutto l’atto con cadenza costante, esaltandone la problematicità.24

Chiudere l’opera con una notazione di freddezza emotiva è un chiaro segnale di intenzionale contenimento sentimentale restio agli slanci passionali cui Puccini ha abituato il suo pubblico. Momento topico di un’opera, il finale getta una luce che ineluttabilmente si riverbera sullo svolgimento precedente. Si direbbe così centrata in pieno la tinta conferita a quello che è sì un «dramma d’amore e di redenzione morale», ma, prosegue la Nota preliminare, «in uno sfondo fosco e grandioso di anime e di natura selvaggia». Essa si è pure estesa a «uno sfrenarsi di cupidigie, un sovvertimento d’ogni ordine di vita, un’anarchia affannosa» ed ha messo al corrente di un popolo «misto e senza legge, un aggirarsi di bande rapinatrici e assassine, nate spontaneamente dalla stessa cupidigia dell’oro […], l’attuarsi d’una giustizia primitiva di crudeltà e di linciaggio». I problemi dei minatori si ripresenteranno puntualmente e la loro «natura selvaggia» si manifesterà in modo probabilmente più virulento per l’assenza dell’elemento equilibratore rappresentato nella comunità da Minnie. Se è infatti vero che essi «amarono», pure «lottarono, risero, giocarono, bestemmiarono, uccisero».

Secondo Puccini un ambiente siffatto non meritava un sistematico torrido melodizzare, ma un canto spiegato che solo a tratti riesce a vincere i «rozzi costumi del campo».25 Lungo tutto lo svolgimento dell’opera Puccini sembra sublimare quanto precisato nella Nota preliminare, ma l’ostinazione nel descrivere il comportamento di Billy dimostra che egli non l’ha assolutamente dimenticato. E’ bene dunque ridestarsi, perché il sogno, con il suadente ma caduco alone di vanità che è caratteristica di tutta l’opera pucciniana, sta finendo, e apparentemente nel migliore dei modi.

Anche dopo Fanciulla, il compositore ha dato prova non solo di ‘fatture stupende’, ma anche di «invenzione melodica» tutt’altro che «stanca». Tenendo ben presente la sua tela, si ritiene che Puccini abbia confezionato un congegno musicale perfettamente ‘su misura’ che rende onore alla sua intelligenza non tanto di straordinario musicista quanto di grande drammaturgo.

Note

1 Cfr: In una saletta d’albergo con Giacomo Puccini, intervista rilasciata a Giacinto Cottini, «Gazzetta di Torino», LII/311, 11 novembre 1911, p. 3, cit. in Michele Girardi, Giacomo Puccini: L’arte internazionale di un musicista italiano, Marsilio, Venezia 1995, p. 287.

2 «Il motivo della redenzione rimanda a Parsifal, opera di cui Puccini era un ammiratore entusiasta. E’ vero che Minnie, barando, non si mostra totalmente pura, né certo l’umanità di quel far west si libera dalle passioni, ma solo dagli egoismi; e tuttavia, sebbene lo spunto sia calato in una realtà diversa, il legame non è meno riconoscibile». Girardi, p.291.

3 Michele Girardi, Puccini. La vita e l’opera, Roma, Newton Compton 1989, p.124.

4 Allan W. Atlas, Lontano-tornare-redenzione: verbal leitmotives and their musical resonance in Puccini’s La Fanciulla del West, in «Studi musicali», XXI, 1992, 2, Olschki, Firenze 1993, pp. 359-98.

5 Ivi, p. 377. I riferimenti musicali sono tratti dalla riduzione per canto e pianoforte di Carlo Carignani, n.113300, a cura di Mario Parenti (1963), Ricordi, Milano 1985. Fra parentesi, il numero romano indica l’atto; segue poi il ‘numero guida’; infine, con i segni – o +, le battute che lo precedono o seguono.

6 Girardi 1995, p. 320.

7 Idem.

8 A Giulio Ricordi, fine novembre 1895, in Carteggi Pucciniani, a cura di Eugenio Gara, Ricordi, Milano 1958, n. 146, pp. 133-4. Per quanto riguarda le guide all’opera, vedi ad es Mario Rinaldi, La Fanciulla del West, Istituto d’Alta Cultura, Grafitalia (già Pizzi e Pizio), Milano 1940, pp. 53-87; Enzo Restagno, La Fanciulla del West, UTET, Torino 1974, pp. 103-98; Paolo Arcà, La Fanciulla del West di Giacomo Puccini, Mondatori, Milano 1985, pp. 56-85; Michele Dall’Ongaro, Riassunto dell’opera e analisi musicale, in Laura Padellaro, Puccini. Tutte le opere, Banca Toscana, Pisa 1989, pp. 160-5.

9 Il testo è esemplato su quello di una canzone celebre all’epoca della Febbre dell’Oro: Old Dog Tray, rinominata anche Echoes from home. La musica è ripresa invece da Festive Sun Dance, melodia degli indiani Zuni trascritta da Carlos Troyer e pubblicata nel 1904. Allan W. Atlas, Belasco and Puccini: «Old Dog Tray» and the Zuni Indians, in «The Musical Quarterly», CXXV 1991, 3, pp. 362-98. Con la traduzione in italiano di Marco Emanuele, il saggio compare in Puccini, a cura di Virgilio Bernardoni, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 211-44.

10 A ciò riportano le conclusioni di William Drabkin, quando, a proposito di Bohème, afferma che «la coda dell’aria della zimarra provoca un’interferenza strutturale con la sostanza drammatica dell’ultima scena soltanto se si è consapevoli della sua origine. Il suo ritorno ha invece poca importanza se, con atteggiamento neutro, lo si considera una semplice elaborazione lineare della tonica conclusiva». William Drabkin, The Musical Language of «La Bohème», in Giacomo Puccini. La bohème, a cura di Arthur Groos e Roger Parker, Cambridge University Press, Cambridge 1986, pp. 80-101. Il passo è stato citato da William Drabkin, Il linguaggio musicale della «Bohème», in Bernardoni, pp. 97-120. Non si comprende allora perché, con un’infinità di soluzioni a disposizione, Puccini ne scelga una ben precisa ed individua.

11 «[Bohème] mi è costata un po’ di fatica per liricizzare un po’ tutti questi spezzatini. E ci sono riuscito: perché voglio che si canti, si melodizzi più che si può». A Giulio Ricordi, novembre 1895, in Gara, n. 146, pp. 133-4. Cfr. Michele Bianchi, La poetica di Giacomo Puccini. Sull’arte e nell’arte di un drammaturgo, ETS, Pisa 2001, paragrafo 5.8.

12 Cfr. Michele Bianchi, Il ‘coro muto’ della Madama Butterfly, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», nn. 1/4, gennaio/dicembre 1998, anno XXXII, Rai-Eri, Roma 1999, pp. 264-83.

13 Cfr. il Salmo 23: «[Iahvè] mi fa riposare su prati verdeggianti, | mi conduce presso acque quiete». Si ricordino inoltre le parole di Gesù: «[…] Chi beve dell’acqua che io gli darò diventerà in lui fontana d’acqua zampillante nella vita eterna». Giovanni 4,14.

14 Si pensi ad esempio alla parabola del Figliol Prodigo: «[…] Facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Luca 15, 11-32.

15 Mauro Orsatti, Un Padre dal cuore di madre. Meditazioni, Ancora, Milano 1998, p. 23.

16 Cfr. Bianchi, La poetica di Giacomo Puccini, in particolare il paragrafo 1.2.

17 Nella preghiera la speranza di pace, in «Osservatore Romano», 11-12 settembre 1978, p. 1 («testo del discorso pronunciato dal Papa prima della preghiera, così come abbiamo potuto raccoglierlo dalla sua viva voce»).

18 Cfr. ad esempio il Salmo 109, dove si legge la maledizione per il nemico: «I suoi [del nemico] figli diventino orfani, | la sua moglie vedova. | I suoi figli vaghino qua e là mendicando; | siano cacciati dalle loro rovine. | L’usuraio gli estorca quanto egli possiede; | gli stranieri depredino il frutto della sua fatica. | Non ci sia chi gli usi misericordia; | non ci sia chi abbia pietà dei suoi orfani».

19 La paternità di Dio nell’Antico Testamento, in: «Osservatore Romano», 21 gennaio 1999, p.4. Cfr. inoltre: Il Papa: «Ricordatevi, Dio è anche madre», in «La Nazione», 21 gennaio 1999, p. 2.

20 Uno straordinario esempio è il ritorno del tema di valzer nel secondo atto, quando Minnie ha appena proferito le parole: «Ci sono avvezza, sai? | Quasi ogni notte, | quando fa troppo freddo, mi rannicchio | in quella pelle d’orso e m’addormento…». Riudire in pianissimo il tema che ha accompagnato il primo emozionantissimo ballo («contro il mio petto vi sentii tremar», le confesserà poco più avanti Johnson, e sulla stessa melodia!) della sua vita con colui che già mesi prima l’aveva affascinata, suscita un’infinita tenerezza. La stessa impossessatasi di Minnie, che chissà quante volte ha sognato il suo Johnson, avvolta nella pelle d’orso, prima di incontrarlo nuovamente, e definitivamente.

21 Il tema ‘della gioia’ è preceduto da quello, stavolta appena accennato, del valzer: la scena che vede l’intervento di Sonora è dunque perfettamente parallela al canto di Johnson del primo atto (Quello che tacete). La sortita di Sonora è dunque un qualcosa che non può «essere taciuto» in quanto «[gliel’] ha detto il cor». Se ben presente all’ascoltatore, questa fitta rete di incroci fra primo e terzo atto potenzia notevolmente il clima emotivo in chiusura d’opera. Ciò dimostra, se ce ne fosse bisogno, l’esplosività della miscela intelletto-sentimento nelle mani di un grande ‘alchimista’.

22 L’«Addio, mia dolce terra; | addio, mia California! | Bei monti della Sierra, o nevi, addio!…» di Johnson e Minnie, alternato dalle voci della turba, ricorda non poco l’anticlimax «O terra, addio; addio, valle di pianti… | Sogno di gaudio che in dolor svanì…» che in Aida la schiava e Radames cantano alternandosi con le sacerdotesse nel tempio e con Amneris.

23 Pur rilevando la sua «fattura stupenda», Carner nota in generale una «stanca invenzione melodica. Della tipica cantilena di Puccini fluiscono qui solo esili rivoletti». Mosco Carner, Giacomo Puccini. Biografia critica, traduzione di Luisa Pavolini (edizione originale Puccini. A Critical Biography, Gerald Duckworth & Co., London 1958), Il Saggiatore, Milano 19814 (19611), p. 552. Girardi ha parlato addirittura di «finalino» («Il finalino possiede una certa suggestione. […] Con quest’opera, pur non sorretto da vera ispirazione, il compositore riuscì a compiere un passo decisivo verso una svolta drammaturgia che avrebbe dato i suoi frutti nelle opere successive, a contatto con libretti più coerenti». Girardi 1989, p. 137).

24 Per Umberto Eco la ‘problematicità’ sarebbe la discriminante tra opere (romanzi) popolari ed auliche: «In una parola, il romanzo popolare tende alla pace, il romanzo problematico mette il lettore in guerra con sé stesso». Umberto Eco, Le lacrime del Corsaro, in Il superuomo di massa, AR&A, Milano 1976, p. 19.

25 «Ma appunto il difficile adeguamento di Puccini al realismo spiega la natura asfittica dell’opera. La restrizione del canto, […] ha spinto il compositore all’elaborazione accurata della partitura in una quantità di particolari che risultano, alla lettura, quanto mai interessanti, originali, perfino preziosi». Claudio Casini, Puccini, UTET, Torino 1978, p. 356. Girardi conferma, parlando di «partitura magnifica», ma di un Puccini «non sorretto da vera ispirazione» (Girardi 1989, p. 137).