Dalla Turandot di Gozzi/Schiller/Maffei alla Turandot di Giacomo Puccini

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Dalla Turandot di Gozzi/Schiller/Maffei alla Turandot di Giacomo Puccini

Dalla Turandot di Gozzi/Schiller/Maffei alla Turandot di Giacomo Puccini

Articolo di Michele Bianchi

Pubblicato come:

Michele Bianchi, Dalla Turandot di Gozzi/Schiller/Maffei alla Turandot di Giacomo Puccini, in: Michele Bianchi, a cura di, L’Oriente di Giacomo Puccini. Madama Butterfly e Turandot, Atti della Seconda e Terza Giornata Pucciniana, Promolucca Editrice, Lucca 2006, pp.15-30.

1. Da Gozzi a Maffei

Letterato e poeta, il veneziano Carlo Gozzi (1720-1806) fu l’ideatore di un genere letterario nuovo: la fiaba teatrale.

Nelle Fiabe l’azione si svolge su due piani distinti, da un lato ci sono le avventure meravigliose molto spesso di derivazione orientale, ricche di personaggi nobili e patetici, dall’altro, capitate lì da questo mondo, le maschere che hanno i piedi per terra e sono la fonte principale della comicità. Certo lo schema è quello tradizionale che voleva distinti i nobili dai plebei – e il Gozzi sottolinea la separazione, differenziandone persino la lingua -, ma paradossalmente estremizzato e radicalizzato, cosicché il gioco diventa scoperto, e avviene pertanto che tra i due piani dell’azione si sviluppi una dialettica ironica, attraverso la quale entrambi i mondi, quello fantastico e quello reale, reciprocamente tendono a demistificarsi […].1

Le storie della letteratura italiana lo ricordano perlopiù per la sua radicale avversione al teatro di Carlo Goldoni, originata dalla convinzione del significato rivoluzionario implicito in quel realismo scenico, in quella serietà di rappresentazione dei ceti borghesi e popolani, in quella satira della nobiltà, coperta certo, ma non per questo meno pungente e pericolosa: a dare unità all’opera così varia del Gozzi, come a dare coerenza alla sua vita apparentemente svagata e da ‘dilettante’, è, dunque, questa convinzione ferma del significato eversore della nuova cultura, ed è questa volontà decisa di combatterla in tutte le sue manifestazioni, nella letteratura, nel teatro, nella lingua, nel costume. […] Il moto che porta il Gozzi verso gli scrittori secenteschi spagnoli è sempre lo stesso: eludere una rappresentazione di vita quotidiana per un teatro nobile, tragico o ‘tragicomico’, con personaggi elevati e regali: sulla scena, per Carlo Gozzi, possono esservi personaggi di fiaba, re e principesse, ‘maschere’ comiche, plebei ridicoli: i soli che non abbiano diritto a comparirvi sono i ‘borghesi’, gli uomini realmente esistenti […].2

Petronio rileva che, dopo il successo del Re cervo, Gozzi abbandona la ‘decorazione’ ed il ‘meraviglioso’, ricorrendo «lo stesso gennaio del 1762, ad un tema orientale, alla storia della regina cinese Turandot, tragica ‘bisbetica domata’, storia già narrata dal francese Fr.Pétit de la Croix in quel suo Les mille et un jours (Parigi 1710-12, voll.5), con cui aveva inteso sfruttare il successo, recente e vivissimo, delle Mille et une nuits».3

Nel 1803, Friedrich Schiller (1759-1805) tradusse in lingua tedesca la Turandot di Gozzi. Quanto all’intreccio, la versione di Schiller non si discosta da quella del veneziano.4 Turandot è una principessa cinese che rifiuta le ragioni dinastiche che la vogliono sposa. Il forte senso di libertà e la diffidenza nei confronti del sesso maschile la inducono ad un compromesso col padre Altoum: sposerà quel principe che riuscirà a risolvere tre enigmi. Chi fallirà sarà condannato alla decapitazione. Tutti falliscono eccetto Calaf, che magnanimamente dà una chance a Turandot: se riuscirà a scoprire il suo nome e quello del padre non vi sarà alcun matrimonio. Ma, pur non dichiarandosi, Turandot è stata subito toccata da Calaf. Pur avendo saputo chi fosse, alla fine gli confessa il suo amore e lo accetta come sposo.

La rielaborazione della fiaba di Gozzi appartiene all’ultimo periodo, quando Schiller coadiuva Goethe, direttore del teatro di corte a Weimar divenuto dunque centro della drammaturgia classica tedesca.5 Schiller traduce ed adatta innumerevoli pièces teatrali aprendo così la cultura tedesca alla produzione internazionale.6 Andrea Maffei appronta la sua versione italiana della Turandot schilleriana,7 che il critico letterario e commediografo Renato Simoni (1875-1952) sembra per la prima volta aver offerto in lettura a Giacomo Puccini.8 Maffei rileva che tradotta dal tedesco […] con mio stupore trovai che ben di poco il poeta straniero si era allontanato dal nostro [Gozzi]. A che dunque vuolsi attribuire l’oblio nel quale è caduto in Italia la Turandot di Carlo Gozzi, mentre in Germania e si legge e si ascolta con sempre nuovo piacere? Non ad altro […] fuor che alla negligenza della lingua e del verso. Lo Schiller altro non fece che sostituire il suo nobile e poetico stile al volgarissimo e spesso abbietto del Gozzi.9

Effettivamente, a livello d’intreccio non vi sono eclatanti differenze fra la Turandot di Gozzi e la riedizione di Schiller. Quest’ultimo cassa giustamente la macchinosa ed insignificante scena ottava del quarto atto, dove Truffaldino si serve della mandragora per estorcere al dormiente Calaf il suo nome. Schiller chiude poi la «fola tragicomica» con la magnanimità d’Altoum ed il gaudio di Calaf. Elimina dunque l’ultima parte della scena seconda (ed ultima) del quinto atto, dove Turandot sconfessa la sua ‘misandroginia’, dichiarando amore al sesso maschile, che si è oltretutto dimostrato più fedele ed integerrimo del concorrente ‘debole’. Tale decisione provoca in verità un certo squilibrio con la repulsione al maschio dichiarata nella scena quarta dell’atto secondo: «[…] Per tutta | L’Asia, invilita e condannata al giogo | Del servaggio è la donna, e vendicarla | Mi proposi e giurai, nei baldanzosi | Nostri oppressori, che vantar non ponno | Privilegio su noi fuor d’una rozza | Vigoria […]».10 E’ vero d’altra parte che la ‘vittoria’ di Calaf è molto più credibilmente esposta sul versante emotivo da Schiller che da Gozzi: «[…] La vittoria è tua, | Mia la sconfitta, e il premio a te si debbe. | Né sol per la ragion che vinta io fui | Mi dono a te: secondo un dolce moto | Del mio cor, che fu tuo da quell’istante | Che gli occhi nostri s’incontrâr».11 Rinnovatasi in Puccini, la potenza della motivazione schilleriana permette dunque di omettere la riabilitazione del ‘maschio’.

2. La variante pucciniana

La Turandot pucciniana crea immediatamente un pathos non riscontrabile né in Gozzi né in Schiller.12 Il Mandarino che legge il funesto decreto emanato dalla principessa ed il tumulto provocato dalla folla assetata di sangue non hanno precedenti nelle fonti. Che Calaf ritrovi suo padre, e non, come in Gozzi, il suo aio (custode-educatore) Assan/Barach, ha conseguenze emotive evidentemente amplificate. Compare subito la graziosa e fedele Liù, che ha condiviso le vicissitudini di Timur vivendo nel poeticissimo ricordo del sorriso donatole a suo tempo da Calaf. Liù è una schiava che, animata da uno spiccato spirito di abnegazione e da un amore votato sicuramente alla sconfitta, non ha niente in comune con la insipida Zelima o la furba Adelma ideate da Gozzi.13

La compressione emozionale ricercata da Puccini, provoca una semplificazione dell’accidentata trama della ‘fiaba teatrale’. Scompaiono così le figure di Assan/Barach e di sua moglie Schirina, così come ogni ricordo di Elmaze, moglie di Timur e madre di Calaf. Anche le traversie patite da Calaf dopo la conquista del regno d’Astracan da parte del sultano di Carizmo sono assolutamente dimenticate. D’altra parte Puccini aveva subito dato indicazioni per un libretto «snello [ed] efficace»:

Caro Simoni, ho letto Turandot, mi pare che non convenga staccarsi da questo soggetto. Ieri parlai con una signora straniera, la quale mi disse di questo lavoro dato in Germania con la mise en scène di Max Reinhardt in modo molto curioso ed originale. Scriverà per avere le fotografie di questa mise en scène, e così vedremo anche noi di che cosa si tratta. Ma per mio conto consiglierei di attaccarsi a questo soggetto. Semplificarlo per il numero degli atti e lavorarlo per renderlo snello, efficace e soprattutto esaltare la passione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgoglio. In Reinhardt, Turandot era una donnina piccola piccola; attorniata da uomini di statura alta, scelti a posta; grandi sedie, grandi mobili, e questa donnina viperina e con un cuore strano di isterica… Insomma io ritengo che Turandot sia il pezzo di teatro più normale e umano di tutte le altre produzioni del Gozzi. In fine: una Turandot attraverso il cervello moderno, il tuo, d’Adami e mio.14

2.1 Turandot

Nonostante la ‘base’ fornita da Gozzi, Puccini era perfettamente consapevole di creare qualcosa di assolutamente nuovo ed originale. Ciò, a partire dal personaggio che non casualmente dà anche il nome all’opera. Puccini chiede infatti: «Turandot di Gozzi come base, ma da quella deve sorgere un’altra figura cioè (non so spiegarmi) insomma dalla nostra fantasia (e ce ne vuole!) deve uscire tanto di bello di gustoso di grazioso da rendere la storia nostra tutta un bouquet di conquista».15 Vediamo dunque quale ‘altra figura’ Puccini e i suoi librettisti escogitano.

In Gozzi, Turandot, pur provando un profondo disprezzo per l’infido ed infedele sesso maschile,16 non ha le nevrosi della sua omonima pucciniana. Non intende maritarsi semplicemente per difendere la sua libertà e il suo talento. Pressata dal padre per ragioni dinastiche, lei riesce così a fargli accettare un editto dove i suoi pretendenti devono sottoporsi alla prova di tre enigmi che, se non risolti, decretano la decapitazione del candidato. Turandot pensava in tal modo di dissuadere chiunque dal cimento, ma la vista del suo ritratto fa perdere letteralmente la testa. L’editto è dunque una leggerezza dalle conseguenze non prevedibili, con la quale Turandot pensava di eliminare la petulanza dei pretendenti e di godere dell’acume e della libertà donatele da madre natura.

La legge del boia è invece il sadico strumento della creatura pucciniana, che ha annegato ogni nobile sentimento socializzante in un’atroce sete di vendetta. Soffre di un complesso atavico, cui urge la ritorsione sul maschio per lo spregio patito dalla sua antenata Lo-u-ling, personaggio inventato dalla fantasia di Puccini e compagni. La ‘sconfitta’ subita da Calaf, eroico risolutore dei tre impossibili enigmi, determina dunque un enorme contraccolpo psicologico. Turandot è terrorizzata dal pensiero di essere ‘posseduta, lei, «la Pura». La preghiera con cui implora Altoum di non donarla «come una schiava» ha tutt’altra valenza rispetto alla stizza della Turandot di Gozzi. Quest’ultima è abbattuta perché pensava di poter imporre «acutezza e talento» anche al ‘sesso forte’. Ma non è stremata come la principessa pucciniana, e per risolvere il contro-enigma di Calaf non intende ricorrere alla violenza estrema per conoscere il nome del principe ignoto: tutt’al più alle minacce ed alla frode.

Anche il quesito di Calaf si sintonizza sul diverso temperamento delle due Turandot, ed ha, se sciolto, conseguenze ben diverse: in Gozzi Calaf si allontanerà da Pechino, mentre in Puccini sarà condannato a morte. La maggiore linearità della Turandot tratteggiata da Gozzi è confermata dal fatto che, prima di iniziare la prova, la Turandot di Gozzi si dimostra subito esplicitamente ‘toccata’ da Calaf. In Puccini solo alla fine del terzo ed ultimo drammaticissimo atto Turandot ammetterà a Calaf di averlo subito temuto ed amato.17 Ma anche adesso la suspence non si sarà ancora dissolta, perché lei rivelerà minacciosamente di conoscere il nome del principe.

Questa straordinaria complessità della Turandot pucciniana non poteva non essere sottoposta a disamine ‘psicoanalitiche’, e l’intelligenza di Mosco Carner non si esime da pionieristici, ma importanti tentativi. Prima di enunciare gli enigmi,18 ella rievoca invece la sua ava Lo-u-ling, violentata ed uccisa.

In questa Reggia, or son mill’anni e mille, | un grido disperato risuonò. | E quel grido, del fior della mia stirpe, | qui nell’anima mia si rifugiò! | Principessa Lo-u-ling, | Ava dolce e serena, che regnavi | nel tuo chiuso silenzio, di gioia pura, | e sfidasti inflessibile e sicura | l’aspro dominio, tu rivivi in me!19

In Turandot si realizza dunque un processo metempsicosico. La metempsicosi è la teoria secondo la quale, dopo la morte corporale, le anime trasmigrerebbero in nuove reincarnazioni. Ma la principessa pucciniana non vive positivamente questa fase: né per puntare ad una conoscenza di più alto livello né, come nell’induismo o nel buddismo, all’estinzione del desiderio (nirvana). La Turandot pucciniana è dunque mossa da oscuri desideri di vendetta e dalla conseguente soddisfazione di non poter, grazie alla difficoltà degli enigmi, mai essere ‘posseduta’ da alcuno.20 E così canta: «O Principi, che a lunghe carovane | da ogni parte del mondo | qui venite a tentar l’inutil sorte, | io vendico su voi quella purezza, | io vendico quel grido e quella morte! | No! Mai nessun m’avrà! | Rinasce in me l’orgoglio di tanta purità!». La «gioia pura» di Lo-u-ling rivive dunque fieramente in Turandot.

La sua è una vera e propria ‘ossessione’,21 a difesa della sua purezza.22 Da quanto dicono Ping, Pang e Pong, la crudeltà di Turandot si è evidenziata da tre anni: «Pang: L’anno del Topo furono sei [i decapitati]! | Pong: L’anno del Cane, otto! | Nell’anno in corso, | il terribile anno della Tigre, | siamo già al tredicesimo […]». Se è possibile quando si è originata la ‘nevrosi ossessiva’ di Turandot, non è possibile dire con certezza come e perché essa si sia manifestata in tutta la sua virulenza. Non si conosce l’età di Turandot, ma è immaginabile che sia molto giovane. La ‘legge’ enunciata dal Mandarino all’inizio dell’opera è conseguenza del ‘giuramento atroce’ e del ‘fosco patto’ ammesso da Altoum nel secondo atto. Come in Gozzi, la reazione di Turandot si è scatenata quando il padre deve averle chiesto di maritarsi. Senza fare della difficile sociologia, è facile immaginare che per una donna, anche in una Cina fiabesca, il matrimonio fosse prassi post-puberale. La pubertà è la prima fase dell’adolescenza caratterizzata dalla comparsa dei caratteri sessuali secondari e dalla maturazione della funzione sessuale. Come periodo di transizione e di rilevante modificazione fisiologica, la pubertà è caratterizzata da frequenti conflitti psicologici connessi all’accettazione o al rifiuto della modificazione corporea, che comporta una riconfigurazione della propria identità e del proprio modo di relazionarsi al mondo circostante. In condizioni normali la pubertà genera crisi a livello sessuale per la rapida e violenta insorgenza dell’istintività in condizioni in cui mancano possibilità di contatto, stabilità di legami, possibilità di far convivere necessità sessuali con atteggiamenti di forte idealizzazione; a livello sociologico per l’inizio del distacco definitivo dal gruppo domestico originario a favore di uno spazio sociale dove ricostruire la propria identità; a livello sintomatico in quanto questa fase di passaggio è caratterizzata da malumori di solito di natura depressiva, perdita di iniziativa e di motivazione, atteggiamenti di protesta contro l’autorità, fugaci fenomeni isterici, ossessivi o eritrofobici.23

Essendo il comportamento di Turandot assolutamente parossistico, chissà che in questa delicata fase non vi siano state delle aggravanti a livello affettivo (es: perdita della madre). E chissà che il rovello pucciniano nel terminare l’opera non consistessero anche in una qualche fugace motivazione per spiegare l’anomalo comportamento della crudele principessa.

2.2 Gli altri personaggi: Altoum

Come ricordano i ministri, da tre anni in Cina è stato instaurato un terrorismo psicologico che ha colpito innanzitutto il padre di Turandot. Altoum è «vecchissimo», ma deve esserlo più per depressione che per ragioni anagrafiche. Ma se il problema di Turandot è il matrimonio, ella deve essere giovane. Per quanto non sembri avere altri figli e si sia «al tempo delle favole», una giovane difficilmente è procreabile da un maschio ‘vecchissimo’. Prima degli enigmi, la didascalia dipinge Altoum «lento, con voce esile e lontana». Quando Calaf li ha risolti e Turandot chiede pietà, egli è diventato «solenne», poi scatta «ergendosi in piedi» ribadendo alla figlia la sacralità del giuramento. Non appena la magnanimità di Calaf si è manifestata con la proposizione del contro-enigma, Altoum è «vecchio», ma comunque «si erge». Alla fine del terzo atto il tripudio coinvolge anche lui, che potrebbe essere ‘ringiovanito’ non di poco.

2.2.1. Calaf

Il Calaf di Gozzi è intraprendente e deciso ad avere Turandot, ma sembra essere strumento di forze superiori.

I miei trasporti | sieno a Voi, Numi; a voi le mani innalzo, | voi benedico […] | a voi, che contr’ogni pensiero umano | tutto cambiate, | umil perdono io chiedo | de’ miei lamenti, e, se talor la doglia | questa vita mortal disperar fece | d’una provvida mano onnipossente, | a voi chiedo perdono, e l’error piango.24

Anche in Puccini, Calaf per un momento vede la principessa in carne ed ossa, e dall’odio per la sua crudeltà passa immediatamente all’amore, e il più sfrenato. Non potrà così esimersi anche lui dal tentare gli enigmi. Ma, a differenza del Calaf gozziano, agisce in lui non solo la certezza di avere trovato l’anima gemella, ma una carica del tutto ‘immanente’. Neanche tanto erotica quanto smaccatamente sessuale. Vuole baciare Turandot, la vuole possedere fisicamente. Ma questa forte carica, se terrorizza la principessa, ha connotati fortemente positivi. Intrinsecamente positivi, senza giustificazioni ‘trascendenti’. Non solo l’‘amore’, ambiguamente bifronte verso orizzonti terrigni e spirituali, ma anche il sesso, precluso ad ogni velleità platonica, afferma la sua esistenza nel novero dei valori positivi. Il bacio che Calaf ‘strappa’ a Turandot alla fine del terzo atto la ‘trasfigura’. Non è assolutamente adombrato qualsiasi bigottismo di ordine morale, a favore di un vitalismo che dirotta gli istinti primari verso l’amore, che coincide adesso con l’‘Amore’.

2.2.2 I ministri

Truffaldino, capo degli eunuchi del serraglio di Turandot; Brighella, maestro dei paggi; Pantalone e Tartaglia, cedono il posto ai tre ministri dell’imperatore. A differenza delle maschere di Gozzi, Ping, gran Cancelliere; Pang, gran Provveditore; Pong, gran Cuciniere, entrano attivamente nel vivo dell’azione, cercando di dissuadere Calaf ad abbandonare la prova. A contrastare i ministri entrano in scena i fantasmi degli amanti morti per Turandot, che incitano invece Calaf. Ciò sottolinea come, a differenza della fonte, in Puccini il fantastico ed il macabro siano anch’essi funzionali ad accrescere il pathos e la suspence della vicenda. I ministri compaiono subito all’inizio del secondo atto, a dispiacersi nostalgicamente della distanza che separa la loro funzione pubblica dai loro affetti privati. E’ un tocco di umanità che Puccini avrà certamente richiesto, vista l’evoluzione dagli originari «mascherotti»,25 alla qualifica di ‘ministri’ con un ruolo «difficilissimo».26

2.2.3 La folla

Un personaggio che non compare assolutamente in Gozzi è «la pittoresca folla cinese», il «popolo di Pekino» cui subito si rivolge il Mandarino che enuncia la dura ‘legge’ di Turandot. E’ un organismo contraddittorio: assetata di sangue, chiede subito l’esecuzione del boia. Ma la violenza delle Guardie gli fa ritrovare immediatamente un’inaspettata umanità: «I miei bimbi! | O Madre mia!». Presenta dunque un profondo iato fra sfera pubblica e privata, non governate evidentemente da un unico metro comportamentale. La definizione di «cani» data dalle guardie precisa quest’atteggiamento bifronte fra docilità e aggressività. Continua poi a chiedere ferocemente l’esecuzione, ma quando compare il Principino di Persia la folla chiede commossa «grazia!» e «pietà!». Ammira il rituale del potere nel quadro secondo del secondo atto, quando giungono Dignitari e Sapienti. Ama l’imperatore, cui augura «diecimila anni» di vita, ed è «reverente» alle parole di Turandot che rievocano l’ava. Quando Calaf indovina il primo enigma «nella folla corre un mormorio di stupore, subito represso dal gesto di un dignitario». Incita il principe dopo che ha risposto al secondo, subendo però l’ira di Turandot, ed esulta festoso all’imperatore Altoum, che parteggia esplicitamente per l’eroico Calaf. Chiede il boia e la tortura nientemeno che per la reticente Liù, salvo poi essere colta da «pietà, turbamento e rimorso» per il suicidio della dolce schiava. «Allora un terrore superstizioso prende la folla: il terrore che quella morta, divenuto spirito malefico perché vittima di un’ingiustizia, sia tramutata, secondo la credenza popolare, in vampiro». Chiede dunque supplice: «Ombra dolente, non farci del male! | Ombra sdegnosa, perdona! Perdona!». Chiude poi in gaudio, inneggiando al lieto fine: «la folla tende le braccia, getta fiori, acclama gioiosamente» per il ristabilirsi della pace sociale dovuta allo ‘sgelamento’ dell’algida Turandot. La folla rimane dunque quella di manzoniana memoria: un’entità umorale, senza una condotta univoca e facilmente manipolabile dal potere vigente.

2.2.4. Liù

Dall’atto terzo si attua una netta divaricazione fra l’intreccio del testo di Gozzi e quello di Puccini. Tutto il terzo e quarto atto sono assolutamente ‘dimenticati’ dal terzo atto della Turandot pucciniana. In particolare, non compare in quest’ultima la schiava Adelma, principessa detronizzata. Il suo comportamento assai ambiguo e non cristallino suggerì a Puccini di inserire dunque un personaggio ‘toccante’ come quello dell’umile, amorevole e dolcissima Liù. L’‘aristocratica’ Adelma, sprezzante i consigli ‘plebei’ dell’altra schiava Zelima, figlia di Assan/Barach e Schirina, ama Calaf e spera che questi sia sconfitto da Turandot per fuggire finalmente con lui. Suggerisce dunque a Turandot sia di mettere ‘sossopra’ la città sia di usare la frode per conoscere il nome del principe. Effettivamente Adelma riuscirà a carpirglielo, ma la disperazione di Calaf farà poi decisamente breccia. Adelma cercherà di uccidersi ma sarà fermata da Calaf. Assecondata da Turandot e Calaf, la magnanimità di Altoum le concederà non solo la libertà, ma anche il suo regno.

Solo una lontanissima eco di Adelma si scopre dunque in Liù, che prima stupisce Turandot nel resistere alle torture subite per estorcerle il nome del principe, e poi si toglie la vita per il timore di non sapere resistere. Liù si dichiara comunque soddisfatta di perdere Calaf per consegnarlo all’amore della principessa, perché, nonostante il ‘gelo’ manifestato, Turandot lo amerà. Nella memoria dello spettatore, la struggente parabola di Liù sarebbe stata ulteriormente esaltata dal finale concepito da Puccini. Ma chi volesse farne il personaggio principale dell’opera si sbaglia: già il titolo Turandot certifica il ruolo principale, il più complesso, il più affascinante mai tentato da Puccini.

3. Il ‘fantastico’

Interessante notare come Puccini reintroduca il ‘fantastico’ che Gozzi aveva volutamente evitato nella sua Turandot. Nelle sue Memorie inutili il patrizio veneziano racconta che, al successo del Re cervo, i suoi avversari opposero

che esso era dovuto soprattutto all’impressione prodotta «dalla decorazione e dal meraviglioso delle magiche trasformazioni», senza concedere nulla «all’apparecchio, a’ gradi dell’artifiziosa condotta, alla retorica, alla malia della verseggiata eloquenza, a’ squarci di morale e alla chiara critica allegorica». Lo scrittore decise perciò di mutare ancora una volta schema, componendo una fiaba che fosse del tutto spoglia di «magiche maraviglie, ma non di gradi d’apparecchio, di morale, d’allegoria e di forte passione».27

Nelle mani di Puccini, la più sfrenata fantasia diventa un eccezionale strumento drammaturgico che accresce a dismisura la tensione dominante sovrana sin dalla prima visione della «grande Città Violetta» «nell’ora più sfolgorante del tramonto». In questa favola troppo bella , il ‘favoloso’ impera superbamente in ogni particolare. Talvolta acquisisce un’assoluta autonomia rispetto ad ogni barlume di grigia quotidianità: «Ma ecco richiami incerti, non voci ma ombre di voci, si diffondono nell’oscurità degli spalti. E qua e là, appena percepibili prima, poi, di mano in mano, più lievi e fosforescenti, appaiono fantasmi. Sono gli innamorati di Turandot che, vinti nella tragica prova, hanno perduto la vita». Le ‘fosforescenti’ Voci delle Ombre dichiarano ancora il loro amore, ma infine «i fantasmi svaniscono». Alla fine del primo atto compaiono anche ‘Voci misteriose e lontane’ che lanciano minacciosi messaggi a Calaf, convinto comunque a tentare la prova. Ma anche il turbinio di luci altrettanto ‘misteriose’ ed in tutte le possibili gradazioni, la «lugubre nenia» dei Ragazzi, «enorme, gigantesco, tragico il carnefice» recante «sulla spalla lo spadone immenso», ‘Voci vicine e lontane’, ‘Voci di donne misteriose e lontane’, il terrore per spiriti malefici e vampiri, l’epica vittoria dell’Amor, tutto insomma profuma di un fantastico perseguito da Puccini ad onta del sobrio ‘realismo’ ostentato da Gozzi. Affidarsi al ‘fantastico’ permette a Puccini, ‘realistico’ dal dopo-Villi, di accrescere l’ansia e l’enigmaticità della sua ultima opera.

4. Il duetto finale e fatale

La Turandot di Puccini presenta una chiusura dove l’Amore trionfa crudelmente su un altro amore, intensissimo ma unilaterale. Sono dunque impensabili conclusioni come quella di Gavazzeni:

Anche Turandot l’avremmo voluta, sfinge precipitante, chiudendo il rifiuto all’amore con un ruinare di morte, con un Puccini che creando la più violenta frattura di linguaggio della sua vita artistica entrasse nel pieno di un suo originale e non ancora udito ‘espressionismo’… Nessuno e nulla mi convincerà mai che il ‘finale’ in positivo realizzato da Adami e Simoni e sul quale tanto ebbe a tormentarsi il musicista, sia quello che i caratteri formali, i timbri drammatici – i colori di morte, i geli, i tagli di luce illividiti – avevano pur indicato sin lì nell’opera…. la frattura che segue ‘la morte di Liù’ – la tagliente quarta vuota fissata negli appunti originali – accennava a una strada. C’erano le premesse di un ‘tragico’ che la conclusione ottimistica non avrebbe dovuto consentire».28

I personaggi sulla scena si dimenticano subito di Liù, ma non se ne sarebbe dimenticato il pubblico, che avrebbe conservato tutto l’amaro di un sacrificio per un legame di più alto livello, ineluttabile e dunque vincente. Puccini avrebbe dunque non solo conservato il lieto fine di Gozzi, ma lo avrebbe potenziato per lo stridente contrasto della morte di Liù, ma anche per la liberazione di quanto Turandot teneva represso dentro di sé. La confessione di Turandot è una straordinaria ammissione di complicanze psicologiche che Puccini era pronto a ‘vivisezionare’,29 ed a dissolvere.

Questo trapasso è oggettivamente difficile da svolgere, ma Puccini, pur arrovellatosi come mai prima, era vicinissimo al dipanare questa fitta matassa.

Il primo accenno al fatidico duetto si ha addirittura più di quattro anni prima della morte del compositore: al 3°, credevo altro svolgimento. Io pensavo che fosse più prenante il trapasso di lei, e avrei desiderato che Ella, coram populo esplodesse in amore. Ma questo in modo eccessivo, violento, sfacciato come uno scoppio di bomba. […] Il gran canovaccio c’è e c’è pure l’opera originale e forse unica. Ma ha bisogno di qualche voltata che troveremo nel discorrerne.30

Da questo momento il duetto rappresenterà un tormento per Puccini, che mai però, metterà in dubbio il per aspera ad astra. Ciò, pur con tutte le possibili varianti, nel rispetto della trama del Gozzi: Turandot dovrebbe essere in due atti, che ne dici? Non ti pare troppo, diluire dopo gli enigmi per giungere alla scena finale? Restringere avvenimenti, eliminarne altri, arrivare ad una scena finale dove l’amore esploda… Non so consigliare una struttura giusta ma sento che altri due atti son troppi. Turandot in due atti grandi! E perché no? E’ tutta questione di trovata per il finale. Forse come nel Parsifal col cambiamento di scena al terzo atto, trovarsi nel San Graal chinese? Tutto fiori rosa e tutto spirante amore?31

Turandot mi tormenta. Ci penso sempre e penso che forse siamo su una falsa strada per il secondo atto. Penso che il grande nocciolo sia il duetto. E questo duetto così com’è non mi pare quello che ci vuole. Dunque vorrei proporre un provvedimento. Nel duetto penso che si può arrivare ad un pathos grande. E per giungere a questo io dico che Calaf deve baciare Turandot e mostrare il suo grande amore alla fredda donna. Dopo baciata con un bacio che dura qualche lungo secondo; «ora che mi importa» deve dire, muoio anche, e gli dice il suo nome sulla bocca. Qui si potrebbe fare il pendant del grigio iniziale dell’atto: nessun dorma in Pekino. Maschere e forse dignitari e schiave nascosti hanno sentito il nome e lo gridano. Questo grido si ripete e si propala, così Turandot è compromessa. E al terzo atto tutto preparato col boia ecc. come al primo atto, lei dice: il nome non lo so, con sorpresa di tutti. Insomma con questo duetto io credo che il soggetto si rialzi e che così si possa arrivare ad una emozione che ora non abbiamo. Che ve ne pare? Ditelo a Simoni. Io vivo in tortura perché non vedo tutta la vibrazione che ci vuole per fare opera di teatro che resti e che prenda.32

Il duetto per me deve essere il clou ma deve avere dentro a sé qualcosa di grande, di audace, di imprevisto e non lasciar le cose al punto del principio, e tagliarlo con urli interni di gente che arriva. Potrei scrivere un libro su questo argomento.33

Quasi due anni dopo aver posto il problema, il ‘clou’ dell’opera, il finale è ancora in piena gestazione, ma Puccini mostra idee chiarissime. Il problema rimaneva tradurre in versi quanto vagava nella mente del compositore.

Ho riletto il 3°. Ho rilevato molto di buono. Molto, ma converrà fare tagli, molti, e anche il duetto, buono al principio e parte del seguito, nel finale ha bisogno di ritocchi. Ho qualche idea. Io sono per il congiungimento della prima alla seconda parte ma in modo un po’ diverso: vorrei che Turandot sciogliesse il suo ghiaccio nel corso del duetto e cioè desidero dell’intimità amorosa avanti di trovarsi coram populo, e a due congiunti in amorosa posa e con amoroso passo incamminarsi verso il trono del padre fra la folla stupita e gridare amore. Essa dice: Non so il nome e lui: Amore ha vinto… e finire in estasi, in tripudio, in gloria solare. Via il Mandarino, via l’Imperatore. Tutto un blocco il duetto con il finale, e più rapido.34

Turandot dorme: ci vuole una grande aria al 2°. Bisogna innestarla, e… trovarla. Poi ho tutto il 3° da fare. Solo il 1° è strumentato ma manca il finale che è sul leggio abbozzato da 6 mesi!35

La base deve essere il duetto e attenersi al fantastico, alla fantasia la più grande, e esagerata anche. Nel grande duetto via via che il ghiaccio di Turandot si scioglie, la scena che può essere anche un luogo chiuso si trasforma a poco a poco e prende aspetto di un grande ambiente di fiori di trapunti marmorei e di apparenze fantastiche… dove la folla, l’imperatore, la Corte e tutto l’apparato di cerimonia è pronto per accogliere il grido d’amore di Turandot. Credo che Liù va sacrificata di un dolore ma penso che non può svilupparsi, se non si fa morire nella tortura. E perché no? Questa morte può avere una forza per lo sgelamento della principessa… Io navigo in un mare di incertezze. Questo soggetto mi ha messo l’animo in grande angustia.36 

Dopo quasi tre anni di lavorio, Puccini si dimostra molto soddisfatto ma l’entusiasmo dura qualche mese. Egli ripiomba poi nell’incertezza:

Ho avuto finalmente il 3° atto Turandot magnifico. L’ho fatto io insieme ad Adami a Viareggio, giorni fa. 37

Pensate anche alla prima idea di mettere voci nascoste, simboliche che dicano di liberazione per l’amore che nasce, e incalzino e incitino. Deve essere un gran duetto. I due esseri quasi fuori del mondo entrano fra gli umani per l’amore e questo amore alla fine deve invadere tutti sulla scena in una perorazione orchestrale.38

Mi preme avere il duetto. Guardate di rialzarlo restando fasi stabilite che sono le vere, ma se vi riesce a trovare nuove movenze per interessarlo di più sarà tanto meglio. E poi vi raccomando il gran finale su metro dell’aria del tenore per la frase finale stabilita.39 

Pensa che ho estremo bisogno del duetto che è il clou dell’opera. Mi son messo a strumentare per guadagnar tempo: ma non ho l’animo tranquillo fino a che questo duetto non sia fatto.40

Mi manca però il gran duo finale 3° che ho fatto rifare per la 4a volta.41

Caro Carlo, ebbi da Simoni, ma non ci siamo. L’ho scritto a Adami, ma a Renato non ho scritto ancora perché debbo dire cose forse a lui sgradevoli e… ci penso. Tu non dir nulla.42

Caro Adamino, Simoni mi ha mandato il duetto in prosa. Ci sono infioramenti e idee un po’ differenti e che mi sembrano buoni. Occorre ora metterlo in versi.43

Caro Adami, è partito or ora di qui Toscanini. […] Si è parlato del duetto che non piace molto. Forse Toscanini convocherà Simoni e voi a Salso. Verrò anch’io e si vedrà se c’è verso di migliorare la situazione. Io vedo buio. Ormai per questo duetto ci ho fatto un testone da elefante. […] Quel poco che ho fatto sentire a Toscanini ha fatto buonissima impressione.44 

Neanche due mesi prima della morte, Puccini sembrerebbe contento. Nella seconda lettera si nota però come, pur prossimo alla meta, il compositore nutrisse ancora dei dubbi. Il duetto sarebbe sicuramente stato oggetto di modifiche, non si sa quanto lievi.

Caro Adamino, finalmente ho ricevuto i versi di Simoni. Sono veramente belli e completano e giustificano il duetto. […] Io penso, penso che ci vuole una trovata scenica per questo terzetto [delle maschere]!45 

Così il duetto è completo. Forse Turandot in quello squarcio parla troppo. Vedremo, quando mi metterò al lavoro, al ritorno da Bruxelles.46 

Ma mai in Puccini s’insinua il dubbio che potesse modificare l’impostazione iniziale del duetto, o che addirittura il lieto fine lasciasse il posto ad una conclusione tragica. Sino alla fine Puccini intenderà tenere il pubblico ‘sulla corda’. Calaf rivela eroicamente il suo nome, e Turandot sembra sfruttare l’opportunità per sbarazzarsene. Alla fine si dichiara però vinta dall’amore che Calaf le ha trasmesso, scatenando il tripudio generale. Puccini ha saputo dunque servirsi delle fonti offerte da Gozzi e Schiller per confezionare una fiaba assolutamente originale, angosciante e struggente, fantasticamente terribile ma esaltante.

 

NOTE

1 Cesare De Michelis, Carlo Gozzi, in: Dizionario Critico della Letteratura Italiana, vol.II, UTET, Torino 1974, pp.259-63: 260.

2 Giuseppe Petronio, Introduzione, in: Carlo Gozzi, Opere. Teatro e polemiche teatrali, a cura di Giuseppe Petronio, Rizzoli, Milano 1962, pp.9-42: 11 e 26.

3 Ivi, p.238.

4 Questa servì a Friedrich Ludwig Seidel per le musiche di scena Turandot, Prinzessin von China (Berlino 1806), a Franz Danzi per il singspiel Turandot (Karlsruhe 1816) ed a Karl Gottlieb Reissiger per l’opera Turandot (Dresda 1835). Vedi la voce Turandot, in: DEUMM, I Titoli e i personaggi, volume terzo, UTET, Torino 1999, pp.209-10.

5 «Le linee essenziali del loro programma sono già tutte chiaramente formulate nell’introduzione schilleriana della rivista «Die Horen», nella quale compaiono i concetti e i termini chiave per capire l’essenza del nuovo progetto: prima di tutto l’invito a portarsi in uno spazio di assoluta autonomia rispetto agli eventi del presente, per ricercare soltanto “ciò che è puramente umano e ricondurre il mondo politicamente diviso sotto il vessillo della verità e della bellezza”». Maria Fancelli, Il Secolo d’Oro della drammaturgia tedesca, in: Storia del teatro moderno e contemporaneo, vol.II, Einaudi, Torino 2000, p.691. La Fancelli precisa poi quanto può servire a comprendere le ragioni di Schiller nel tradurre Turandot: «Tutto il teatro di Schiller è attraversato da una volontà di incidere sullo spettatore e di creare quella “attesa carica di passione e di tensione” di cui parla in una nota lettera a Goethe del 26 ottobre 1796, e che è uno dei tratti più caratterizzanti della sua drammaturgia degli effetti: in essa trova espressione compiuta un’autentica vocazione retorica e un páthos del tragico sempre sorretto da un’intima verità e da una forte coerenza teorica». Ivi, p.702.

6 «Le fiabe di Carlo Gozzi […] furono imitate in Germania da Tieck e da Platen, in quel clima spirituale del Romanticismo che vagheggiava, sulle orme di Novalis, fantastici incontri di anime e scoperte di recondite e misteriose armonie: tali imitazioni vennero dunque acquistando elementi lirici e patetici, e perdettero, rispetto all’originale italiano, in vivacità e bizzarria». Luigi Vigliani, Fiaba, in: Grande Dizionario Enciclopedico, vol.V, UTET, Torino 1956, p.701.

7 Macbeth, tragedia di Guglielmo Shakspeare [sic]. Turandot, fola tragicomica di Carlo Gozzi. Imitate da Federico Schiller e tradotte dal cav. Andrea Maffei, Le Monnier, Firenze 1863.

8 «Vi mando il volume di Schiller. Ci intenderemo per lettera e poi ora si tratta di adattare stilizzare interessare, imbottire gonfiare e sgonfiare il soggetto. Così com’è non va. Ma lavorato, masticato, deve venir fuori qualche cosa di Signor ladro cioè Sor Prendente. […] Ma voi due veneti dovete ugualmente dar forma moderna e interessante e varia a quel Gozzi vostro parente. Non fate parola, ma se riuscite (e dovete) vedrete che bella cosa originale e anche prenante (è qui che insisto) riuscirà! La fantasia vostra con tante baldorie dell’antico autore, deve per forza portarvi a grandi e gustose cose!». Senza data, in: Adami, n.176, p.257.

9 Macbeth-Turandot, p.321.

10 Macbeth-Turandot, p.209. 

11 Macbeth-Turandot, p.314. La Turandot di Gozzi si esprime invece così: «Il mondo tutto sappia, | ch’io capace non son d’un’ingiustizia, [!!!] | e sappi ancor, che le tue vaghe forme, | l’aspetto tuo gentile, | ebbero alfine | forza di penetrare in questo seno, | d’ammollir questo cor. Vivi e ti vanta. | Turandotte è tua sposa». Turandot, in: Gozzi, Opere, p.329.

12 Da ora in poi si nominerà solo Gozzi dal momento che, come si è accertato, Schiller non produce varianti significative. Interessante rilevare che Antonio Bazzini, insegnante di Puccini al Conservatorio di Milano, compose Turanda (Milano 1867), mentre Giuseppe Giacosa, librettista di Manon Lescaut, Bohème, Tosca e Madama Butterfly riprese la storia di Turandot nel suo Trionfo d’amore. Nel 1904-5 Ferruccio Busoni compose una suite per orchestra (op.4), mentre nel 1916-17 compose anche il libretto di Turandot, chinesisches Fabel in due atti. Chissà che la «veduta tarda» pucciniana (Vedi: Michele Bianchi, La poetica di Giacomo Puccini. Sull’arte e nell’arte di un drammaturgo, ETS, Pisa 2001, paragrafo 1.4.) non abbia ‘covato’ questa tematica per decenni, per poi erompere nel consueto capolavoro.

13 «Hai pensato bene alla nuova immissione della piccola donna?». A Renato Simoni, 28 agosto 1920, in: Carteggi Pucciniani, a cura di Eugenio Gara, Ricordi, Milano 1958, n.774, p.495. Liù compare esplicitamente per la prima volta nella «guida dell’atto secondo» che Puccini offre a Simoni nel dicembre 1920, in: Gara, n.777, p.496. Per il libretto, vedi: Giuseppe Adami – Renato Simoni, Turandot, in: Tutti i libretti di Puccini, a cura di Enrico Maria Ferrando, Milano, Garzanti 1984.

14 A Renato Simoni, 18 marzo 1920, in: Gara, n.766, p.490-1. Gara precisa in nota: «La Turandot di cui si parla qui, inscenata appunto dal Reinhardt, è quasi certamente quella del Gozzi nella versione di Schiller. (Meno probabile la Turandot di Busoni, poco adatta a fantasiosi esperimenti di messinscena)».

15 Giacomo Puccini, Epistolario, a cura di Giuseppe Adami, Mondadori, Milano 1928,  n.177, p.258.

16 Vedi anche l’atto III scena 1, dove si precisa che gli uomini sprezzano in particolare la sacralità del matrimonio.

17 Per le analogie fra Turandot e la Brunilde wagneriana, vedi: Bianchi, paragrafo 6.13.

18 In Puccini la soluzione degli enigmi è: la speranza, il sangue, Turandot. In Gozzi invece, il sole, l’anno, il Leon dell’Adria [Venezia]. Schiller muterà le risposte in: l’anno, l’occhio e l’aratro.

19 Tutte le citazioni dalla Turandot pucciniana sono tratte da: Tutti i libretti di Puccini, a cura di Enrico Maria Ferrando, Milano, Garzanti 1984.

20 Nella sua consueta attenta disamina, Mosco Carner nota fra l’altro: «Vistosa è anche la somiglianza, che forse denuncia un’origine comune, della storia di Turandot con il mito delle Amazzoni. Una delle sue molte versioni racconta di Tanais, regina di un pacifico paese sul Mar Nero invaso e messo a ferro e fuoco dal re d’Etiopia Vexoris; tutti gli uomini sono uccisi e le donne violentate, mentre il re costringe Tanais a sposarlo. Ma Tanais lo pugnala la sera delle nozze, dando così il segnale per un olocausto dell’esercito vittorioso, dopo il quale le Amazzoni decidono di creare uno Stato di donne con una regina a capo, la quale si sarebbe concessa solo all’uomo che fosse riuscito a vincerla in battaglia. […] Da tutto questo sembrerebbe che Puccini e i suoi librettisti si siano basati su altre fonti oltre al dramma di Gozzi». Mosco Carner, Giacomo Puccini. Biografia critica., traduzione di Luisa Pavolini, (edizione originale Puccini. A Critical Biography, Gerald Duckworth & Co., London 1958), 19814 (19611), pp.624-5.

21 «Il termine, che deriva dal latino obsidere che significa assediare, bloccare, occupare, descrive la condizione di chi è ostacolato dal bisogno insopprimibile di compiere determinati atti o di astenersi da altri […]. Anche se il soggetto è consapevole dell’insensatezza dei suoi atti o delle sue idee ossessive, non può fare a meno di riprodurli in una sorta di rituale che, messo in atto per placare l’ansia, diviene autonomo, trasformandosi in un meccanismo ripetitivo […]». Umberto Galimberti, Ossessione, in: Dizionario di psicologia, UTET, Torino 1999, pp.649-51.

22 Puro-Impuro, in: Galimberti, pp.790-1. Infatti, «la categoria dell’impurità e la ritualità necessaria alla purificazione ricorrono come forma di pensiero e come comportamento frequente nelle nevrosi ossessive».

23 Pubertà, in: Galimberti, p.786.

24 Turandot, in: Gozzi, Opere, p.333.

25 Non abusate coi mascherotti veneziani. Quelli debbono essere i buffoncelli e i filosofi che qui e lì buttano un lazzo o un parere (ben scelto, anche il momento) ma non siano degli importuni, dei petulanti. Senza data, in: Adami, n.177, p.258.

26 Anche il Trio maschere è a buon punto. Anche questo pezzo è difficilissimo ed è di importanza massima essendo un morceau senza scena e quindi un pezzo quasi accademico. 14 aprile 1923, in: Adami, n.213, p.286.

27 Petronio, p.238.

28 Gianandrea Gavazzeni, Turandot, organismo senza pace, in: Quaderni Pucciniani 1985, a cura dell’Istituto di Studi Pucciniani, Matteoni, Lucca 1986, pp.33-42.

29 «La nostra Principessa (di cui sempre più si fissa la mia mente) sarà felice di vederci uniti per vivisezionarne l’anima». A Renato Simoni, 28 luglio 1920, in: Gara, n.770, pp.492-3.

30 18 luglio 1920, in: Adami, n.181, p.261.

31 A Renato Simoni, 13 settembre 1921, in: Gara, n.816, pp.514-5. Puccini si riferisce appunto al terzo atto di Parsifal, dove si legge: «La scena si trasforma a poco a poco, come nel primo atto, però da destra a sinistra. […] La foresta va sempre più diradando e, in suo luogo, si rendono visibili volte rocciose, e appare ancora l’intera sala del Gral, come nel primo atto, ma senza le tavole della mensa. […] Dolce, graduale illuminazione del ‘Gral’. […] Raggio luminoso: abbagliante splendore del Gral». Tutti i libretti di Wagner, a cura di Olimpio Cescatti, UTET, Torino 1996, p.762 e p.765. Effettivamente, in Turandot la scena in Pekino subisce drastiche variazioni. All’inizio del primo atto, durante il tramonto, si vede la «Città Violetta». Al terz’atto «è notte», mentre alla fine «l’esterno del palazzo imperiale, tutto bianco di marmi traforati, sui quali i riflessi rosei dell’aurora s’accendono come fiori».

32 Senza data, in: Adami, n.196, p.272.

33 8 novembre 1921, in: Adami, n.197, pp.273-4.

34 9 luglio 1922, in: Adami, n.203, pp.278-9.

35 8 ottobre 1922, in: Giacomo Puccini, Lettere a Riccardo Schnabl, a cura di Simonetta Puccini, Emme edizioni, Milano 1981, n.111, pp.195-6.

36 3 novembre 1922, in: Adami, n.206, pp.281-2.

37 20 maggio 1923, in: Schnabl, n.120, pp.217-8. Alla Seligman scriverà: «At last I’ve had the third act of Turandot. Adami came to Viareggio and in a week we finished it very well. Now the libretto is complete and very beautiful too, it’up to me to write the music! But I shall have to work a lot to finish this blessed opera. However, now that I have a fine third act, I have more courage and desire to work». A Sybil Seligman, 17 maggio 1923, in: Puccini among friends, a cura di Vincent Seligman, Macmillan & Co. LTD, London 1938, p.347.

38 16 novembre 1924, in: Adami, n.238, p.301.

39 17 dicembre 1923, in: Adami, n.220, p.290.

40 A Renato Simoni, 22 dicembre 1923, in: Gara, n.877, p.545.

41 22 dicembre 1923, in: Schnabl, n.126, pp.231-2.

42 A Carlo Clausetti, 14 febbraio 1924, in: Gara, n.882, pp.547-8.

43 31 maggio 1924, in: Adami, n.230, pp.295-6.

44 7 settembre 1924, in: Adami, n.233, p.297. Lo stesso giorno, Puccini scrive a Schnabl in termini assai diversi: «Caro Schnabl, è partito di qui ora Toscanini e tutte le nuvole sono scomparse, e ne sono molto, ma molto lieto. […] Gli ho fatto vedere e sentire qualcosa e mi pare che sia rimasto molto contento». 7 settembre 1924, in: Gara, n.898, p.555.

45 8 ottobre 1924, in: Adami, n.235, pp.298-300.

46 22 ottobre 1924, in: Adami, n.237, pp.300-1.