IL ‘CORO MUTO’ DELLA MADAMA BUTTERFLY

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IL ‘CORO MUTO’ DELLA MADAMA BUTTERFLY

IL ‘CORO MUTO’ DELLA MADAMA BUTTERFLY

di Michele Bianchi, Il ‘coro muto’ della «Madama Butterfly», in: «Nuova Rivista Musicale Italiana», 1/4, gennaio/dicembre 1998, Rai Eri, Roma 1999, pp.265-83.

Giacomo Puccini deve avere concesso attenzioni del tutto particolari al cosiddetto ‘coro muto’ di Madama Butterfly, se ancora nella fase preparatoria del libretto così scrive ad Illica: «Ti raccomando l’ultimo quadro e pensami a quell’intermezzo, per servirmi del coro: bisogna trovare qualcosa di buono. Voci misteriose a bocca chiusa (per esempio). Non so cosa vorrei, ma ci vuole qualcosa, e questo qualcosa lo troverai tu, ne sono certo. A presto dunque.»1 Puccini non sa cosa vuole, ma il coro «a bocca chiusa» non solo si farà, ma risulterà brano memorabile. La responsabilità di cui egli sembra investire il librettista suona quantomeno ironica. Si conferma dunque come Puccini sia almeno coautore dei libretti da lui musicati e comunque sicuro faro per coloro che materialmente dovevano confezionarli.

Scrivere che «bisogna trovare qualcosa di buono» prefigurando già la soluzione, implica la piena consapevolezza dell’estrema originalità di quanto egli andava pensando. Eccettuato il terzo atto di Rigoletto e il primo de La fanciulla del West, non ci risulta che questo espediente sia mai stato utilizzato. Ma è assolutamente da rilevare che in entrambi i casi, la ‘bocca chiusa’ ha un preciso referente: nel caso di Rigoletto le voci intendono riprodurre il sibilare del vento, mentre in Fanciulla il mugolio viene dai minatori, quasi a rammentare che la loro mesta condizione non permette di cantare spiegato. Il coro della Butterfly non ha invece alcun riferimento naturalistico: è un coro «interno, lontano, a bocca chiusa». Da dove provenga non sappiamo, chi canti o cosa denoti non è a prima vista identificabile. Si potrebbe pensare ad una pura trovata timbrica di un Puccini che non sembrerebbe andare a rimorchio di compositori del passato o coevi. Curioso comunque il fatto che nessuno abbia messo in rilievo l’assoluta originalità non solo della ‘bocca chiusa’, ma del suo carattere ‘astratto’ non apparentemente riconducibile ad una qualche manifestazione extra-musicale. Un tale peccato di omissione anche da parte della grande critica, al pari del lapsus freudiano, dimostra che Puccini sa evidentemente avventurarsi con tale disinvoltura nei meandri della teatralità musicale, che anche quanto si rivela poi del tutto eccezionale assume una parvenza di sconcertante naturalità. Naturale che esista un coro ‘a bocca chiusa’, assolutamente naturale che non si riesca a capire chi canta, naturalissimo che non si sia tentato di capire se e quale funzione il brano rivesta.

Puccini è convinto del suo operato. Il 29 agosto 1903 scrive a Giulio Ricordi: «Resta la madamigella giapponese, ma a Parigi strumenterei l’atto 2. nei ritagli di tempo. Adesso di composizione mi rimane ben poco. Ho finito il famoso intermezzo che mi pare venuto bene.»2 Nonostante non sia neppure strumentato, l’intermezzo, di cui il coro muto rappresentava la prima parte nell’opera originariamente pensata in due atti, è addirittura ‘famoso’. Ciò, almeno per gli stretti collaboratori, a causa di discussioni che non è difficile immaginare intense ed animose. Il 3 settembre 1903 comunicava invece ad Illica che «l’intermezzo-nottata è finito, e mi par d’avere fatto una cosa buona. Anzi arrivo a dire che mi sono sorpassato. Ho fatto la ‘berceuse’ e sono al terzetto Sharpless-Pinkerton-Suzuki.»3 La certezza di avere composto qualcosa di notevole cresce evidentemente a dismisura, e stimola l’indagine per verificare se, almeno per quanto riguarda il coro muto, Puccini esprimesse un convincimento dotato di fondamenti oggettivi.

Innanzitutto, è da evidenziare la posizione del coro: da poco Sharpless ha ‘strappato Butterfly dai miraggi ingannatori’. In un primo momento essa rimane «immobile, come colpita a morte», ma poi reagisce positivamente, «trionfalmente», presentando suo figlio al console americano. L’anelato ritorno di Pinkerton sembra dar pienamente ragione all’incrollabile fiducia di Butterfly, che prorompe nel «trionfa il mio amor! | la mia fe’ trionfa intera! | Ei torna e m’ama!» La tensione è al massimo grado e la parabola teatrale si sta incamminando verso una conclusione che può ancora prevedere almeno tre soluzioni: non torna, torna e m’ama, torna e non m’ama. Siamo dunque all’inizio della svolta, ma, prescindendo dal sottotitolo dell’opera («tragedia giapponese»), il coro non sembrerebbe poterci fornire indicazione alcuna sul destino di Butterfly. Si potrebbe ancora pensare in un ravvedimento di Pinkerton, specie alla luce della sua insaputa paternità, ma, d’altra parte, le parole di Sharpless dopo la lettura della lettera sono di una crudezza che non può non lasciare il segno nella memoria dell’ascoltatore.

Fausto Torrefranca definisce il coro muto come «languente e bamboleggiante balbuzie orchestrale»,4 mentre Claudio Casini sembra quasi concordare, quando afferma che «nella lettura della lettera […] l’anticipazione strumentale del coro a bocca chiusa insinua la grazia della barcarola nell’imminenza del terribile annuncio.»5  Anche Mosco Carner è tutto sommato della stessa idea: in Belasco la veglia notturna colpì l’immaginazione di tutto il pubblico; la musica di Puccini l’ha resa uno dei momenti più poetici dell’opera. Questo notturno è uno dei brani più ispirati di Puccini e credo si possa sostenere che non fu ideato per la scena della lettera (nella quale lo abbiamo incontrato per la prima volta) ma appunto per questa scena finale. Vi si può scorgere anche una ninna-nanna – probabilmente suggerita a Puccini dal sonno che conquista a poco a poco il bambino e la domestica come si vede dal dolce dondolio dell’ostinato,  ppp, sui flauti e gli archi pizzicati in sordina e la cullante melodia senza parole del coro a bocca chiusa fuori scena, una melodia semplice come un canto popolare.

Di «ninna-nanna» parla anche Michele Girardi,7 mentre Bice Serafini afferma che giungiamo così al duetto dei fiori. Segue, nei manoscritti, una Ninna-Nanna cantata da Butterfly al bimbo, e a tal proposito, abbiamo trovato una lettera inedita e (al solito) non datata, di Puccini, che offriva il metro giusto allo scrittore canavesano [Giuseppe Giacosa]. C’è inoltre una serie di battute che Butterfly scambia con Suzuki e che accompagna la sua preparazione per la notte: tutte scene eliminate dal Maestro.8

Ad una ninna-nanna effettivamente si riferisce anche Puccini: «ho fatto la ‘berceuse’ e sono al terzetto Sharpless-Pinkerton-Suzuki.» Della ninna-nanna potrebbe rimanere traccia nel Dormi, amor mio dell’atto terzo; ma è pensabile, come suggerisce Carner, che possa in qualche modo essere confluita nel coro muto? 

In primo luogo, l’ipotesi che il coro muto sia stato composto prima della scena -della lettera’ è discutibile. Come rilevato all’inizio,9 Puccini sembra iniziare il concepimento del libretto di Butterfly proprio a partire dal coro «a bocca chiusa». Si è però già visto come, il 29 agosto 1903, il compositore affermasse che «adesso di composizione mi rimane ben poco. Ho finito il famoso intermezzo.»10 Poiché Puccini ancora voleva la Butterfly in due atti, senza cioè calata di sipario dopo il coro, è possibile che abbia scritto tutto l’intermezzo orchestrale nello stesso momento. Ma affermare di aver «finito il famoso intermezzo» non dice niente circa l’inizio della sua stesura. E’ ipotizzabile dunque che Puccini, pur avendo intuito immediatamente la fondamentale importanza della ‘scena muta’, abbia iniziato subito il suo consueto lavorio mentale riservandosi solo in un secondo tempo di scrivere quanto lucidamente fantasticato.

Secondariamente, per definire il carattere del ‘coro muto’ è fondamentale osservare non tanto il comportamento di Suzuki e del bambino, quanto quello della protagonista. Il coro non è ancora cominciato che «Butterfly si pone innanzi al foro più alto e spiando da esso rimane immobile, rigida come una statua.» La didascalia seguente, a coro inoltrato, conferma la particolare postura della donna: «il bimbo si addormenta, rovesciandosi all’indietro, disteso sul cuscino e Suzuki si addormenta pure, rimanendo accosciata: solo Butterfly rimane sempre ritta ed immobile.» Ella non si addormenta come i suoi cari, ma rimane sveglia. E non solo rimane sveglia, ma lungi dal rilassarsi od abbandonarsi ad atteggiamenti trasognati, «rimane sempre ritta e immobile», appunto «come una statua». Il ‘coro muto’ non può dunque assolutamente denotare una ninna-nanna, perchè questa presuppone una madre serena, carezzevole, conquistata interamente dalla creatura partorita e amata. Butterfly assume invece una posa del tutto innaturale per un atto d’amore verso il figlio. Non parlotta e non canticchia quelle frasi dal senso non sempre facilmente decifrabile, tipiche di questi momenti. Il bimbo, «che sta fra la madre e Suzuki, guarda fuori»; poco dopo «si addormenta, rovesciandosi all’indietro, disteso sul cuscino». Anch’egli sembra dunque tetragono ad instaurare un rapporto simbiotico con la madre, che ribadisce invece il suo atteggiamento da statuaria funeraria. Butterfly ed il figlio sembrano essere refrattari all’incantesimo creato da una ninna-nanna. Il significato e la funzione del ‘coro muto’ vanno dunque ricercati altrove. 

Non è la prima volta che Butterfly si trova in questa posizione attestante una grande tensione interna. Quando nel primo atto Sharpless chiede alla fanciulla notizie del padre, questa «si arresta sorpresa; poi, secco, secco, risponde: Morto!» Al termine di «Io seguo il mio destino» nuovamente «si arresta come se avesse paura d’essere stata udita dai parenti.» Dopo essere stata rinnegata dai parenti, «Butterfly sta sempre immobile e muta con la faccia nelle mani.» Nell’atto secondo, dopo che il console le ha posto la tragica domanda «Ebbene, | che fareste, Madama Butterfly, | s’ei non dovesse ritornar più mai?», ella rimane «immobile, come colpita a morte». E quando Goro profetizza sventure per il figlio «nato maledetto», nuovamente «rimane immobile come impietrita.»  Nel terzo atto, Butterfly viene a sapere che Pinkerton è vivo, e reagisce «come se avesse ricevuto un colpo mortale: irrigidita». Arresasi ad abbandonare il figlio, «rimane immobile e calma». La tragedia è ormai compiuta. Ritroveremo Butterfly in chiusura, quando ella «si inginocchia davanti all’immagine di Budda». Straordinari leitmotiven* dalla valenza scenica che segnano oltretutto un crescendo di angoscia repressa, questi richiami interni al testo evidenziano come Butterfly si irrigidisca in situazioni che la rendono sempre più cosciente di un’esistenza stravolta, e fungono da presentimento per nuove e ancor più difficili prove.

Si ha così la conferma che la ‘scena muta’ non intende alludere né ad una ninna-nanna né ad una situazione di serena spensieratezza, ma è la chiave di volta di uno svolgimento che, già incanalato sulla via del pessimismo, sta precipitando verso la tragedia. Le didascalie e le relazioni interne al libretto sono inequivocabili, purché vengano rilevate e sia conferito il peso che compete loro. Quanto stiamo vivendo è un lamento funebre, epicedio o treno che dir si voglia,11  per l’ineluttabile destino che sta per abbattersi sulla protagonista. Ha perfettamente intuito Gustavo Marchesi quando scrive che il coro muto «vale come un delicato, femmineo sudario»,12 così come Cesare Garboli, che parla di «incubo della veglia notturna».13 Dopo avere citato forme della melica greca, è da rilevare che non poche sono le analogie fra il coro della Butterfly e la trenodia di Simonide che narra di Danae gettata in mare col figlio.

Quando nell’arca dedalea il vento spirante e il mare tempestoso la vinsero col timore e col pianto, strinse fra le braccia Perseo, e disse: «Figlio, quale travaglio io soffro. Tu dormi col cuore sazio di latte, nel triste legno, e disteso rifulgi nella notte immota e nella tenebra oscura; né curi il cupo risucchio dell’onda che sul tuo capo ti avvolge, né l’urlo del vento, chino il bel volto sulla fascia purpurea. Ma se ciò che è terribile fosse tale per te, pronto presteresti l’orecchio alle mie parole. Prego, dormi bambino! e s’addormenti il mare, e cessi il travaglio che non ha misura; e venga un mutamento, o Zeus padre, da te. E perché chiedo con parola audace anche contro giustizia, perdonami!»14 

Il ruolo decisivo che assume il ‘coro muto’ nell’economia della Madama Butterfly e la tensione che vi si accumula, giustificano la cocciutaggine di Puccini nel non volere calare il sipario in quello che doveva essere un atto unico. Puccini aveva dunque, se non ragione in assoluto, ottimi motivi per licenziare una Butterfly che egli vedeva in due atti. Infatti è molto più logico che lo straordinario pathos accumulatasi nel corso dell’opera e interamente confluito nella scena muta dovesse, progressivamente ma immediatamente, scaricarsi senza che la tela impedisse il raffreddarsi di un’azione dalle esplosive potenzialità emotive. Così Puccini scrive a Ricordi: sono stato due giorni d’un umore pessimo e lo sa perché? perché il libretto, come è, da dopo il secondo atto in giù non va e accorgendomene me ne sono angustiato tanto. Ora però mi sono convinto che l’opera deve essere in due atti!!… Il dramma deve correre alla fine senza interruzioni, serrato, efficace, terribile! Facendo l’opera in tre atti si andava incontro al fiasco sicuro. Io sono sicuro d’inchiodare il mio pubblico e di non mandarlo via scontento, facendo così. E avremo allo stesso un taglio nuovo di opera e bastante per tenere una serata.15

Riferendo il medesimo concetto anche ad Illica, Puccini si eccita al pensiero di «arrivare alla fine tenendo inchiodato per un’ora e mezzo il pubblico! E’ enorme, ma è la vita dell’opera. Tu che vedi così bene il teatro, spero vorrai dirmi che ho ragione e se io t’avessi qui ti convincerei come ne sono convinto io.»16 Con la rappresentazione di Brescia, Madama Butterfly torna ai tre atti che ancor oggi la fanno da padrone. Fortunatamente le ragioni musical-teatrali non sono mere proiezioni di conclusioni logiche e conservano pur sempre una loro autonomia. E un’operazione illogica, se non immotivata per quella ancora notevole parte di pubblico che mal digerisce lunghezze wagneriane, non impedisce alla Butterfly di essere uno straordinario capolavoro.

Si è visto come una lettura accurata del libretto può far concludere che la scena muta connota un lamento funebre. Al semplice ascolto il dolce ricamo musicale concepito da Puccini per questo momento non sembrerebbe però illustrare la tragedia incombente. E’ dunque in atto un’operazione di depistaggio, che rivela sia l’ambiguità e la perfidia pucciniana nel congegnare musica, testo e scena, sia la sua sagacia nel non farli pedissequamente combaciare. La neutralità di un materiale musicale che, almeno nella scena ‘della lettera’, riesce ad essere sommamente espressivo, è stata rilevata da Antonino Titone: la ‘lettura della lettera’ è costruita sul tema che il ‘coro muto’ renderà celeberrimo, e in questo caso a giusto merito. Si tratta infatti di un brano che utilizza moduli così semplici da dirsi pressoché inesistenti, e la maniera con cui questo materiale quasi impalpabile riesce a produrre una violenta resa emotiva sorprende anche chi sa essere Puccini maestro in tal genere di virtuosismi.17 

Casini conclude invece che «il coro a bocca chiusa è un superbo pezzo iterativo di astratta raffinatezza timbrica.»18 E’ dunque proprio la musica ad aver schermato la piena comprensione del ‘coro muto’ da parte sia del prevenuto Torrefranca, sia di ammiratori quali Carner e Girardi. E’ la ‘bamboleggiante melodia’ dall’accompagnamento cullante, dall’orchestrazione rarefatta e da una dinamica che non supera il mezzoforte, oscillando fra p e ppp, ad aver potuto far pensare a una ninna-nanna. Già la prescrizione agogica  Moderatamente mosso con semiminima 100 potrebbe peraltro fungere da avvertimento, in quanto l’estrema scorrevolezza risultante da una simile indicazione, se non allude assolutamente all’incombente catastrofe, non sembra comunque consona ad una ninna-nanna. Si rileva così il grave errore della maggioranza dei direttori d’orchestra che, stravolgendo anche soltanto una caratteristica stilistica del progetto pucciniano, possono originare situazioni drammatiche non consone alla gravità del momento. Nella fattispecie, della ‘ninna-nanna’ sono perlopiù responsabili le direzioni, fra il sognante ed il soporifero, di bacchette più o meno prestigiose.19

Il ‘coro muto’ viene anticipato in ben venti battute nella precedente scena ‘della lettera’. E’ il momento in cui Sharpless legge a Butterfly quello che intende essere il definitivo addio del marito, e quello che dovrebbe dunque segnare la perdita della speranza di riavere l’uomo amato. Tutta la scena ‘della lettera’ è permeata dalla cellula Fa – La – Si bemolle, che può essere definita come la cifra, l’etichetta che contraddistingue questo drammaticissimo momento. E l’inciso Fa – La – Si bemolle è una costante che funge da cornice al coro, all’inizio essendo eseguito solo strumentalmente ed in chiusura anche dalle voci. Citare questa cellula significa dunque rientrare nel clima della lettura della lettera, che è appunto ‘scortata’ dal frammento Fa – La – Si bemolle. Con ciò che le è connaturato e con le relazioni che riesce ad instaurare, anche la musica opera non solo sui nervi e sui sentimenti, ma anche al primo fondamentale livello della comunicazione: il piano denotativo. L’emittente Puccini comunica chiaramente all’attento ricevente quanto si è concluso con l’analisi librettistica. E’ così pienamente confermato che il ‘coro muto’ ha una precisa funzione a livello drammatico: quella di presentare una donna che non sta sognando né ad occhi aperti né ad occhi chiusi, ma che è psichicamente vivissima, attentissima e tesissima perché sta ripensando e rimuginando dentro di sé le parole che il console le ha letto. Parole dal senso ormai più che evidente, nonostante l’arrivo della nave di Pinkerton nel porto di Nagasaki possa teoricamente ancora sconfessarlo. Ma è proprio il ritorno del marito a dare un senso alla febbrile attesa di Butterfly, per la quale le «dolci parole» possono ancora essere preludio alla felicità, ad onta della crudezza del console.

Non è casuale che il materiale dipanato dal ‘coro muto’ compaia, nella scena ‘della lettera’, sulle parole «non mi rammenta più». Essendo questa musica legata inscindibilmente al ricordo di Pinkerton, anche il coro risulta essere momento all’insegna della rievocazione. La fredda lucidità di Butterfly rimanda al tumulto generato nel suo animo da una incalzante successione di eventi contrastanti: una lettura di missiva che, non affrontando ‘di petto’ la situazione, può effettivamente ingenerare illusione; un improcrastinabile chiarimento circa il reale significato della lettera, ed un arrivo che può significare il trionfo di fedeltà e speranza. Non è superfluo rammentare che trattasi comunque di rievocazione particolare, visto che Butterfly «rimane immobile, rigida come una statua». 

Si è dunque visto come la cellula Fa – La – Si bemolle, accomunando la scena ‘della lettera’ al ‘coro muto’, dia a quest’ultimo connotati pessimistici. Essi assumono poi una luce ancor più sinistra quando venga rilevato che Fa, La e Si, naturali o bemolli, sono il perno attorno al quale ruotano i riferimenti al padre di Butterfly, suicidatosi per ordine dell’imperatore con l’harakiri. L’intervallo di quarta è percorso in tre modi diversi: la cellula del coro muto vede la quarta giusta coperta da una successione di terza maggiore e semitono per moto ascendente (es.1a); l’inciso ‘della morte’ ha un tragitto più tortuoso che sembra specchiare il precedente, scendendo subito di semitono per risalire con terza minore e tono (es.1b); con una discesa decisa, quello ‘del pugnale’ percorre la quarta aumentata quasi ad invertire la direzione del frammento del coro (es.1c).20 

Che vi siano legami fra coro e tema ‘del pugnale’, lo ricorda quest’ultimo, che, pure variato, risuona ben due volte appena prima dell’«a bocca chiusa». Moto ascendente, moto discendente, moto circonflesso: tre disegni diversi ma complementari, e correlati sia dal punto di vista intervallare sia da quello espressivo. Un tratto comune che conferma lo stretto legame fra i tre incisi è il presentarsi non armonizzati, almeno nella fase iniziale. Sembrerebbe dunque che Puccini intendesse lasciarli scoperti, proprio per conferire loro il rilievo che compete a motivi cardine dell’opera. Non si può evitare di concludere che Fa, La e Si siano note chiave, caricate da Puccini di un significato recondito, quasi a rinnovare la tradizione dei B.A.C.H e A.S.C.H. Anche il «con onor muore chi non può serbare vita con onore» del terzo atto lo conferma (es.2). Che contribuiscano poi a determinare l’atmosfera del coro muto, dimostra che anche la musica, scevra di parole, sa parlare con il linguaggio che le è proprio: al pari delle indicazioni didascaliche, essa ci sta preparando a vedere Butterfly morire nello stesso modo del padre. Il procedimento pucciniano sembra così anticipare, incarnare, e confermare l’intuizione di Enrico Fubini, per il quale la ‘semanticità contestuale’ della musica,21 si fa valere «pienamente solo quando la musica si trova a diretto confronto con un testo letterario.»22

Il reticolo di relazioni instaurate da Puccini fra cellula del coro, ‘della morte’ e ‘del pugnale’, conferma: 1) la capacità di lavorare ‘nello stretto’ tornendo e levigando profili melodici. Torna così alla mente un importante articolo di Teodoro Celli che così conclude: Occorre bandire come illusoria e persino offensiva la concezione di un Puccini ‘facile melodista’, Puccini faticava, duramente e nobilmente, per realizzare le sue aspirazioni in vere melodie. Conosceva quella che potremmo tornare a chiamare l’art de troubar. Sapeva fin troppo bene che il genio è soprattutto pazienza. Verdi, anzi, aveva detto addirittura, col suo ruvido linguaggio: «il genio è sgobbare.»23 2) il suo talento architettonico nel relazionare spunti melodici al fine di creare un tutto organico. Tutta la Butterfly sembra un’immensa variazione sul tetracordo, in particolare proprio quello Fa – Si bemolle già considerato. E’ doveroso ricordare il giudizio espresso da Titone sui temi della Butterflyquesti temi risultano incredibilmente uguali, si possono leggere di seguito come un unico tema; queste diciannove idee  sono in realtà un’idea sola, deformata più e più volte sino a sembrare ogni volta qualcosa d’altro, ma tutte riconducibili, tranne quei pochissimi casi all’inizio indicati, a un solo, gelido esercizio, che tale è, al fondo, il germe di queste invenzioni: il tintinnare di un minuscolo carillon, un modesto studio di diteggiatura; poche note, le une alle altre vicine, che si succedono salendo e discendendo senza sosta.24   

In Puccini, l’abilità nel generare varianti non sempre facilmente correlabili, è non fine a sé stessa, ma parimenti funzionale alla vicenda scenicamente rappresentata e datrice di organicità e coerenza. Un ulteriore esemplificazione è data dall’inizio dei tre atti. L’inciso dell’atto primo sfiora appena l’intervallo di quarta, con un’acciaccatura che oltretutto atterra su un accento intensificante il FF vigoroso (es.3a). La rappresentazione esordisce così con una scenetta vivace che non fa assolutamente presagire i penosi sviluppi. Con l’atto secondo la quarta giusta è pienamente affermata in una progressione dal breve respiro (es.3b): Pinkerton è partito, non si è più fatto vivo, ma Butterfly conserva una fede incrollabile. Nell’atto terzo la quarta si è dilatata sia ascendendo sia discendendo (es.3c), entrando così in relazione diretta con il tema ‘del pugnale’ (es.1c) e preludendo in tal modo l’uscita di scena fatale e cruenta della protagonista. Tutto l’atto terzo è permeato da questa quarta aumentata, culminante in una scrittura inquietante che quasi si direbbe in codice (es.4). Butterfly sembra essere dunque anche il dramma di una quarta che sorge timidamente, sa affermarsi per poi esplodere e perire. Indicazioni sceniche e musica sembrano ammonire di non sottovalutare le implicazioni drammatiche del ‘coro muto’, che della quarta è l’ipostasi, momentaneo equilibrio fra serenità e tragedia. 

Nel suo straordinario articolo, Cesare Garboli ha colto perfettamente il senso di morte che pervade tutta la Butterfly, addirittura dall’entrata della protagonista nel primo atto: il passaggio famoso (famoso anche filologicamente) delle amiche di Cio-Cio-San, con gli accordi del coro che salgono imbevuti d’aria di mare squarciando il cielo e rivelando l’orizzonte grazie a una strumentazione ‘angelica’, introduce una nota non di gioia, ma, nella festa, di lutto; la sposa, alta di statura, sottile come una figura di paravento’ inganna sé stessa raccontandosi subito la bugia: «Io sono la fanciulla più lieta del Giappone… anzi del mondo»; bugiardo istante di ebbrezza leopardiana che la glossa musicale (la ‘vera cultura’ di Puccini) s’incarica di smentire, sublimando l’equivoco nel celeste presagio di morte.25

L’impressione di Garboli ha fondamenti tecnico-musicali: al canto rigorosamente diatonico di Butterfly, si contrappone l’accordo aumentato del coro che pure, con la simmetrica dilatazione delle terze maggiori, sembrerebbe quanto di più aderente al «quanto cielo! quanto mar!» (es.5). Lo scollamento fra lo stile di canto della protagonista e quello del coro, rimanda alla fondamentale questione della rispondenza della struttura musicale al piano espressivo, che nella Butterfly emerge in tutta la sua straordinaria sistematicità. 

Se in Butterfly si è visto come l’intervallo di quarta aumentata connoti tragedia, lo stesso può dirsi di un accordo che percorre una quinta aumentata. A parte la parentela data dall’‘eccedenza’, si deve rilevare come quarta e quinta aumentata sono entrambe tappe della scala esatonale, che viene ripetutamente suggerita dal raddoppio della fondamentale dell’accordo. L’omogeneità dei due intervalli ‘espansi’ rende lecito interpretare la sortita di Butterfly come nucleo originario contenente già in sé i germi della gioia e del dolore, dell’amore e della morte, meccanica generatrice dell’intera opera. Siamo dunque in presenza di un metodo applicato con lucidissima perizia che qui, come nel ‘coro muto’, permette alla musica di mantenere l’indipendenza ed un apparente distacco anche da quanto essa stessa sembrerebbe volere a prima vista comunicare. Come per l’intermezzo che chiude il secondo atto, Puccini tenta, riuscendovi pienamente, di spacciare il tragico sotto una veste leziosa, deviando l’attenzione dello spettatore su aspetti superficiali della vicenda. Si illumina così la faccia nascosta di un musicista che, dietro la maschera goliardica che gli è stata spesso impunemente affibbiata, ha una profondità che sconfina nell’alchemico e nel misterioso. Non posso che essere dunque nuovamente d’accordo con Garboli, che ritiene Butterfly opera in cui l’onda del commento musicale parte da un punto di vibrazione postuma e insieme di prescienza dolorosa, così che si aprono due teatri, uno drammatico che ‘si vede’ e un altro che affoga i colpi di scena dietro un lago di morte trionfalmente immobile, descrivendo in dettagli uno sull’altro l’agonia del fiore che si disfa angoscioso e voluttuoso. Se, come io credo, è riconoscibile in Butterfly, nel 1904, una cellula esistenziale, essa si sviluppa non senza coerenza culturale, essendo Butterfly non opera di vita, ma un’opera di morte.26 

Questa infallibile intuizione è di segno opposto alla cavillosa ed immotivata interpretazione di Enzo Siciliano: La notte d’attesa doveva esaltare al massimo lo spasmo erotico del personaggio, rendere visibile la sua isteria: «Butterfly rimane immobile, rigida come una statua», dice la didascalia del libretto al punto del coro a bocca chiusa. E la nenia di quel coro cosa altro induce se non il correlativo obiettivo d’un estasi autoerotica per intero teatralizzata?27

Luigi Ricci pone un quesito, chiedendosi: da dove vengono quelle diafane voci in coro? Vengono dalle anime divinamente dolenti sparse nel mondo? Sono le consonanze della tristezza di Butterfly? E’ la notte che piange e sospira con i profumi voluttuosi del gelsomino, o è l’anima di Butterfly che canta spandendo la sua profumata melodia verso gli astri che brillano in cielo? Non ha parole quel mistico coro e pur ci parla con la suggestione del mistero. Dice l’indicibile. E’ sovrumanamente eloquente.28 

Ricci coglie dunque il carattere doloroso del ‘coro muto’, anche se non concordo con il fatto che esso «ci parla con la suggestione del mistero.» Ho già puntualizzato come, letto nella sua complessità scenica, il ‘coro muto’ comunichi un concetto chiaro: che ci stiamo incamminando ormai speditamente verso la tragedia. Ritengo dunque che la frase iniziale del coro (es.6a) non sia altro che il Leitmotiv, dilatato ritmicamente per aumentazione, legato all’eco dei parenti di Butterfly, disgustati ed irati per avere ella rinnegato la religione avita (es.6b). Il profilo è il medesimo, ossia un arco con accenni ad un percorso sinusoidale, come identica è la ritmica puntata. Non sembrerebbe dunque casuale che questo tema preceda da vicino il ‘coro muto’, quasi legandosi ad esso nelle due battute che lo precedono. E’ da notare che, quando Pinkerton riesce ad allontanare la ‘bonzeria’, il tema risuona e la didascalia riferita ai parenti recita: «un po’ lontani». Qualche battuta dopo ritroviamo la stessa situazione: «lontano molto» anticipato dallo stesso tema, e un «lontanissimo» seguito dall’ «urlano ancor» di Butterfly, con il tema che non si fa attendere. L’ «interno, lontano» del coro muto sembrerebbe adesso trovare una logica spiegazione: non solo nella mente (‘interno’) di Butterfly si accavallerebbero gli esiti delle eventuali scelte di Pinkerton, ma interverrebbe anche l’ossessione del ripudio parentale (‘lontano’). Controbilanciando il drammatico ricordo dei parenti, la seconda frase (es.7) del ‘coro muto’ sembrerebbe riecheggiare momenti più lieti: precisamente quelli della sua entrata in scena nel primo atto (es.5), rammentata anche nel secondo (es.8). Si dice che in punto di morte le tappe fondamentali dell’esistenza vengano rapidamente ripercorse: questo sembra comunque valere per Butterfly, cui scorrerebbero davanti agli occhi le immagini di un matrimonio che doveva renderla felice, del parentado inferocito per aver ella abbandonato la sua religione, e della lettura di una lettera dalle alterne emozioni. Questo momento è il distillato di un’esistenza ed il concentrato di un dramma interiore che sta velocemente erompendo verso l’azione.

E’ possibile così avvicinare la funzione del ‘coro muto’ della Madama Butterfly a quello del coro nella tragedia, greca o manzoniana che sia. Puccini ha inteso sospendere momentaneamente il fluire dell’azione per fare il punto della situazione emotiva della protagonista, nella cui mente rivivono i momenti salienti della sua troppo breve storia d’amore. Se il coro che accompagna la morte di Ermengarda dell’Adelchi ha punti di contatto con la scena muta, la strofe II del primo stasimo dell’Edipo re di Sofocle sembra evocare un momento molto simile a quello che sta vivendo Butterfly: il coro scandisce che «il saggio indovino mi tormenta | con forte paura: e non so accogliere | o allontanare la sua voce. E non ho parole. | E sono inquieto nell’attesa | ignorando il presente ed il futuro.»29 Le parole si direbbero dunque del tutto insufficienti ad esprimere l’inquietudine per una vicenda del cui sviluppo non possiamo ancora essere certi, anche se una pluralità di indizi scenici e musicali lo incanala verso una conclusione tragica. Analoga situazione vive Butterfly, nella cui incrollabile fede, supportata dall’arrivo di Pinkerton, sembra fare breccia l’orrore per il suicidio del padre e la coscienza del suo stato di rinnegata.

L’adozione sistematica del tetracordo come materiale da costruzione e l’originalissimo uso di un coro che non ha voce di personaggio farebbero pensare ad un tentativo pucciniano di adottare caratteristiche fondamentali della cultura musicale greca ed adattarle alle sue esigenze drammaturgiche.30 Per quanto riguarda l’uso pucciniano del leitmotiv Claudio Casini ha evidenziato aspetti della massima importanza: le idee musicali non vengono assoggettate ad uno sviluppo sinfonico, di tipo wagneriano. Al contrario sono citate in forma di reminiscenza; non contribuiscono in alcun modo al corso dell’azione, e non ne costituiscono sempre un riflesso; servono semplicemente da segnale, rivolto allo spettatore, per sollecitare l’emotività, e da elemento di raccordo all’interno della struttura musicale.31

Altrove chiarisce che la condotta è motivica e non, come in Wagner, tematica: vale a dire che le idee musicali non sono suscettibili di sviluppo, per Puccini, mentre subiscono esclusivamente varianti pragmatiche, soltanto armoniche, timbriche, intervallari. Manca loro, spesso, la natura di allusione drammatica e psicologica.»32

Se non posso concordare con l’ultima affermazione di Casini, preme soltanto rilevare il carattere sostanzialmente statico del leitmotiv pucciniano. Se il linguaggio non vivesse di convenzionalità, potremmo rinominarlo ‘nomos’. Lo Pseudo Plutarco nota come si dovessero mantenere «le caratteristiche che gli erano proprie: erano chiamati nomoi  (cioè ‘leggi’) poiché non era lecito uscire dai limiti di intonazione e di carattere stabiliti per ciascuno di essi ».33 Last, but not least, Madama Butterfly è l’unica opera di Puccini ad essere sottotitolata «tragedia». I lavori che la precedono proprio commedie non sono: ma Le Villi sono un’ ‘opera ballo’; Edgar e Manon sono ‘drammi lirici’; Bohème è un ‘opera’, mentre Tosca è ‘opera lirica’. E’ più di un indizio dunque a poter fare ritenere che le mire della triade Illica – Giacosa – Puccini tendessero, con l’adozione del tetracordo, del coro a commento dell’azione e del nomos, a perpetuare il genere tragedia risalente al massimo fulgore della civiltà greca.

In sole 50 battute, il ‘coro muto’ si impone come opera nell’opera, momento sommamente teatrale nonostante la sua sobrietà ai limiti del diafano. Eppure Claudio Sartori, autore di una importante monografia su Puccini, riesce a scrivere che la pagina sinfonico-corale, ormai popolarissima che chiude il secondo atto di Butterfly è ben lontana, con la sua grossolanità appena velata, assai più degna di un Mascagni che di un Puccini, dalle geniali sottigliezze dell’inizio del terzo atto di Bohème e di Tosca o dall’invocazione alla luna di Turandot. Ma qui siamo ritornati, per evidente involuzione, al genere sinfonico-descrittivo nel quale Puccini in gioventù riteneva di riuscire così bene; mentre altrove il sinfonismo descrittivo era stato superato in un vero e nuovo linguaggio musicale delle cose e degli esseri. Là il mondo, l’ambiente avevano un loro canto, qui si cerca di tradurre in musica una descrizione letterariamente manierata di un ambiente.34 

Sartori non ha evidentemente compreso, e sin qui poco male, che il ‘coro muto’ non intende descivere né un mondo né tantomeno un ambiente, bensì il tormento di un anima destinata a perire tragicamente. Un’anima nella quale si affastellano ricordi e sensazioni contrastanti, pianta da un universo che può solo osservare e non intervenire a suo favore. Si rimane però sconcertati quando non solo Sartori parla di «involuzione» che tanto evidente non è, ma taccia di ‘grossolanità’ la scena che chiude il secondo atto. Riferito al coro della Butterfly, ciò risulta acrobazia intellettuale rigettata anche da qualsiasi suo ascolto distratto. Grossolana non è neppure la strumentazione con archi, flauti, clarinetti, arpa e comparsa di corni e clarone con dinamica appena in rilievo. Da un punto di vista formale si presenta in una raffinata veste ‘ad arco’: A ( battute 3 – 10 ) – B ( 11 – 18 ) – A ( 19 – 26 ) – C ( 27 – 33 ) – B ( 34 – 41 ) – A 1 ( 43 – 50 ). L’intellettualistico schema della ‘bogenform’,35 nobiliterebbe dunque un brano di una semplicità disarmante poi spesso fraintesa. Anche l’armonia è estremamente interessante: se nelle prime sei battute l’accordo di Si bemolle maggiore campeggia appena screziato da quello di dominante, alle battute 7 ed 8 subentra l’accordo di do minore su pedale di Si bemolle che chiudono la sezione A. La sezione C è in una tonalità mal decifrabile, ma chiude chiaramente in do minore; tutta la sezione C può essere comunque letta in un do minore naturale, od eolio. Nonostante la sua debolezza il collegamento Si bemolle maggiore – do minore, dal livello di successione accordale si evolve ad opposizione tonale. Mutatis mutandis, tale comportamento si ricollega ad una caratteristica dello stile classico,36 giunta evidentemente sul banco degli arnesi compositivi di Puccini.

Perfettamente riscontrabile anche nelle dimesse 50 battute del ‘coro muto’, la qualità di un lavoro serrato sia dal punto di vista scenico sia da quello strettamente musicale, fa comprendere la pregnanza delle parole scritte in un biglietto inviato a Giulio Ricordi: «sono tranquillo nella mia coscienza d’artista.»37 Puccini aveva effettivamente congedato un «organico capolavoro»38 di intelligenza e di teatralità drammatico-musicale. Chissà che non abbia ricevuto la benedizione ed il plauso dei classici greci per scampare il pericolo corso in una serata scaligera, la quale avrebbe potuto tramutarsi in un’offesa intollerabile per l’orgoglio e la dignità di posteri la cui sentenza non è stata e non dovrebbe continuare ad essere poi così ardua.   

 

NOTE

1 A Luigi Illica, 5 dicembre 1901, in: EUGENIO GARA, Carteggi Pucciniani, Ricordi, Milano 1958, lettera n.263, p.215. Pubblicando la versione iniziale di Illica, Arthur Groos ha dimostrato che con questa lettera Puccini si riferisce al secondo intermezzo, collocato quasi in chiusura d’opera, dopo che la protagonista ha deciso di «fare un lungo … un lungo sonno …». Luigi Illica’s Libretto for Madama Butterfly (1901), in: «Studi pucciniani», 2/2000, Lucca 2001, pp.91-204.

2 GIUSEPPE ADAMI, Epistolario, Mondadori, Milano 1928, p.152.

3 GARA, lettera n.322, p.244.

4 FAUSTO TORREFRANCA, Giacomo Puccini e l’opera internazionale, Fratelli Bocca, Torino 1912, p.39.

5 CLAUDIO CASINI, Puccini, UTET, Torino 1978, p.302.

6 MOSCO CARNER, Giacomo Puccini, traduzione di Luisa Pavolini (Puccini. A critical Biography, Gerald Duckworth, London 1958), Il Saggiatore, Milano 19814 (19611), pp. 540-1.

7 MICHELE GIRARDI, Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano, Marsilio, Venezia 1995, p.245.

8 BICE SERAFINI, Giacosa e i libretti, in: Critica pucciniana, Provincia di Lucca, Lucca 1976, pp.116-32.

9 GARA, op. e lettera citt., vedi nota 3.

10 ADAMI, op. e let. citt., vedi nota 2.

11 Per ‘epicedio’ si intende il canto funebre eseguito dinanzi al cadavere del morto che veniva compianto, mentre il treno probabilmente rievocava lo scomparso in un anniversario della morte, più o meno prossimo. Vedi: CARLO DEL GRANDE, Storia della letteratura greca, Loffredo, Napoli 197214, p.83.

12 GUSTAVO MARCHESI, Opera lirica, Ricordi-Giunti, Milano 1986, p.318.

13 CESARE GARBOLI, Sembra una figura di paravento: Madama Butterfly, in «Quaderni Pucciniani», Istututo di Studi Pucciniani, Milano 1982, pp.91-102. E un incubo doveva essere anche «l’intermezzo cupo-lento e suggestivo del drago» (A Luigi Illica, 1 ottobre 1901, in: GARA, n.261, p.214). Si veda infatti: GROOS, p.190-1: «Solamente quando fu innanzi al tempio do Oora essa si fermò, bruscamente, sui due piedi, ed ebbe la evidente sensazione di cinque dita di una mano fredda fredda al cuore! Sulla gran porta i suoi occhi si arrestarono come affascinati sul velario raffigurante il Drago di hokousai, il drago rosso dalle nove teste che beve alle nove coppe simbolizzanti i nove dolori della vita. E Butterfly si arrestò come per fermarsi per sempre, come se inconscia fosse pervenuta alla meta, colla vertigine di una visione rapida, quella che il drago fosse lì per lei sola e per lei fossero quelle nove coppe che il Drago beve sempre senza poterle vuotare mai. Ed ecco appunto dal tempio il canto dei bonzi repentinamente dare quasi una misteriosa evidenza alla sua fantasticheria, perché al sentire enumerati nel canto dei bonzi i dolori della vista la povera Butterfly comprese di averli provati tutti, tutti, meno l’ultimo: la morte.»

14 DEL GRANDE, p.124.

15 ADAMI, 16 novembre 1902, p.149.

16  GARA, 16 novembre 1902, n.287, p.225.

17 ANTONINO TITONE, A Butterfly – Embalmer, in Critica Pucciniana, cit., pp.133-51.

18 CASINI, p.307.

19 Facendo un confronto fra due note esecuzioni in disco della Butterfly, rilevo che Herbert von Karajan adotta una semiminima 69 (EMI EX 295, Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, anno 1955 remastering 1987), mentre Alberto Erede una semiminima 72 (DECCA LXT 2638-2640, anno 1951). La differenza fra quanto scritto in partitura e queste riproduzioni risulta evidente.

20 Tutti gli esempi musicali sono desunti da: GIACOMO PUCCINI, Madama Butterfly, Riduzione per canto e pianoforte di Carlo Carignani, a cura di Mario Parenti, n.110000, Ricordi, Milano 1964 (ristampa 1983).

21 «La semanticità della musica si potrebbe dire contestuale e riscontrabile a posteriori: solo in un complesso contesto sintattico i suoni o meglio i gruppi di suoni acquistano un significato. Si potrebbe forse dir che la musica è un linguaggio in cui prevale nettamente la dimensione sintattica su quella semantica, al punto che la dimensione semantica lungi dall’essere negata viene quasi totalmente riassorbita da quella sintattica.» ENRICO FUBINI, Linguaggio e semanticità della musica, in Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, Einaudi, Torino 1973, pp. 33-45.

22 ENRICO FUBINI, Semanticità e formalismo, in op.cit., pp.46 – 55.

23 TEODORO CELLI, Gli abbozzi per ‘‘Turandot’’, in «Quaderni Pucciniani», 1985, Istituto di Studi Pucciniani, Milano 1985, pp.43-65 (già pubblicato in «La Scala», 1951).

24 ANTONINO TITONE, Vissi d’arte, Feltrinelli, Milano 1972, p.93.

25 Vedi nota 13.

26 Idem.

27 ENZO SICILIANO, Puccini, Rizzoli, Milano 1976, p.216.

28 LUIGI RICCI, Puccini interprete di sé stesso, Ricordi, Milano 1954, pp.139-40.

29 SOFOCLE, Edipo re [414-11 a.C], traduzione di Salvatore Quasimodo, Mondadori, Milano 1972, p.71.

30 Che la cultura greca fosse ben presente a Puccini durante la gestazione di Madama Butterfly lo testimonia  un’articolo dell’amico giornalista Carlo Paladini (CARLO PALADINI, Madama Butterfly, la nuova opera di Giacomo Puccini – intervista col maestro, «Giornale d’Italia», II/256, 14 settembre 1902, riportato per intero in: CARLO PALADINI, Giacomo Puccini, Vallecchi, Firenze 1961, pp.98-108). In esso Puccini confessa: «Credi che i costumi giapponesi hanno una grande attrattiva a paro dei costumi… di tutti i generi. La toilette delle giapponesi è di una semplicità classica, rammenta quella delle greche ed è forse della stessa epoca, ma è ancora più bella presa nel complesso, poiché oltre che ai lunghi vestiti a larghe pieghe, vi è anche il pregio della stoffa, specialmente per quei bellissimi colori…». Vanno inoltre ricordate le lezioni di Letteratura poetica e drammatica di Amintore Galli che lo studente Giacomo Puccini aveva seguito al Conservatorio di Milano. Rimangono testimonianze inequivocabili in uno dei tre quadernetti conservati nella Biblioteca dell’Istituto Musicale Boccherini di Lucca (collocazione N IV 5b).  Un ‘capitolo’ vi è dedicato a Sofocle.

31 CASINI,  p.197.

32 Ivi, p.247.

33 Citato in: GIOVANNI COMOTTI, La musica nella cultura greca e romana, EDT, Torino 1979, p.18.

34 CLAUDIO SARTORI, Puccini, Nuova Accademia Editrice, Milano 1958, p.278.

35 CARNER, p.536.

36 «Questa sensazione che il movimento, lo sviluppo e il percorso drammatico di un’opera sono latenti nel materiale, che il materiale stesso può liberare tutte le proprie potenzialità cosicché la musica ne venga letteralmente spinta in avanti, invece che dispiegarsi tranquillamente come nel barocco fu il maggiore contributo di Haydn alla storia della musica. Lo si può amare per molte altre qualità, ma fu questa nuova concezione dell’arte musicale che cambiò tutto quello che venne dopo di lui.», in: CHARLES ROSEN, Lo stile classico, traduzione di Riccardo Bianchini, (The Classical Style. Haydn, Mozart, Beethoven, The Viking Press, New York 1971), Feltrinelli, Milano 19893, p.137.

37 Puccini nelle immagini, a cura di Leopoldo Marchetti, Museo di Torre del Lago Puccini 1968, immagine n.143.

38 Non sono pertanto d’accordo con la severa critica di Leonardo Pinzauti, il quale non intende «che si parli di quest’opera come di un organico capolavoro […]. Chi parla di capolavoro per Madama Butterfly rischia quindi di lasciarsi fuorviare in un estetismo che vorrebbe, da qualche tempo, stabilire quasi un’equazione fra scaltrezza artigianale e opera d’arte, fra «modernità» e gusto del frammento, fra inquietudine espressiva e fascino del «kitsch». LEONARDO PINZAUTI, Puccini: una vita, Vallecchi, Firenze 1974, pp.103-4;  LEONARDO PINZAUTI, Giacomo Puccini, ERI, Torino 1975, p.103.