Il futuro della destra italiana secondo Fabio Barsanti

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Il futuro della destra italiana secondo Fabio Barsanti

Il futuro della destra italiana secondo Fabio Barsanti

a cura di Rubina Mendola

 

 

*Fabio Barsanti è nato a Lucca nel 1981. Laureato in Scienze Giuridiche, attualmente è gestore di un negozio di abbigliamento in centro storico. Militante politico  fin dalle scuole superiori, è tra i fondatori di Casa Pound Italia a Lucca, della quale è stato fino a poco tempo fa responsabile prima regionale, poi provinciale. Si è candidato a sindaco alle elezioni comunali del 2017 con due liste, dove con l’8% si è piazzato terzo su otto, dopo centrosinistra e centrodestra. Attualmente ricopre la carica di consigliere comunale del gruppo misto.

 

Ci spiega che cos’è Casa Pound? Molti pensano a questa realtà con indignazione, immaginando sia un “covo di fascisti”, di “picchiatori”, eccetera: si tratta di una dolorosa verità che non si vuole ammettere o è una leggenda mediatica denigratoria messa in giro da avversari ideologici?

Se pensano questo è soltanto perché non ci conoscono. O perché si fidano ciecamente dei giornali. Una volta che questo accade, che si entra in contatto con quello che facciamo, poi si cambia idea. Siamo un simbolo di apertura. Per noi non ci sono dogmi culturali o politici, negli incontri che facciamo nelle nostre associazioni ospitiamo anche personaggi di sinistra, per esempio. Casa Pound è un luogo scomodo per le sue idee salde e perché si sottrae a qualsiasi giochetto di potere o di poltrona, è una realtà dal basso che non può essere risucchiata dal potere politico. Siamo degli idealisti, forse gli ultimi ‘romantici’ della politica. Casa Pound ha la funzione di muovere i più giovani, di fare riviste, lavori editoriali. Facciamo volontariato, produzione culturale. La nostra immagine speculare, a sinistra, è l’Arci, che ha prodotto aggregazione politica con le Case del Popolo, cultura attraverso le riviste, ponendosi a servizio dei partiti afferenti.

Cosa mi dice del risultato elettorale italiano di queste ultime settimane?

Sul referendum, beh, io sostenevo il no perché ritengo la riforma strumentale e populista, fatta a uso e consumo dei Cinque Stelle. Non la ritengo migliorativa del sistema nel suo complesso, così priva com’è di un corollario di riforme adeguate. Mi sembra un ricatto popolare che il governo ha posto anche a quelle formazioni di opposizione che non sono state capaci di smarcarsi dall’impopolarità del no. A livello politico credo che la mappa attuale delle regioni governate da destra e sinistra porta a credere che ci sia una distanza enorme tra governo in carica e rappresentatività. Sul locale, in Toscana mi sembrava proprio difficile la vittoria del centro-destra e così è stato. Per il futuro, bisognerà guadagnarsi la fiducia degli astensionisti e dei delusi. Serve un progetto alternativo che dia credibilità in vista del 2022.

Ma quale sarebbe secondo lei il futuro della destra italiana, e come si dovrebbe progettare? Qual è l’ostacolo che impedisce ancora alla destra una piena vittoria politica nazionale?

La sinistra gode di uno zoccolo duro di persone che vanno a votarla a prescindere da come e cosa faccia. La loro base di elettori li vota, qualunque cosa accada.

 E come ha fatto a ottenere adesione inossidabile, questa fidelizzazione longeva e acritica?

Grazie a un certo modo di gestire il potere e di distribuirlo. Potere che è simultaneamente mediatico e giornalistico,  che tiene alto un pensiero unico globalista. Il PD rappresenta perfettamente il ruolo dell’establishment, anche internazionale: è il baluardo del popolo della ZTL. Da noi tutti i giornali più importanti sono appiattiti sulle stesse posizioni e idee. La televisione non è diversa, anche lei è schierata con questo pensiero ‘unico’, anche satira e telegiornali sono in mano a quel modo di interpretare la realtà, e tutte le trasmissioni di approfondimento Questa egemonia culturale –che ad esempio in Toscana ed Emilia si esprime anche sotto la forma del sistema delle  cooperative- affonda nelle teorie gramsciane di inizio secolo, per cui la sinistra è investita dal dovere morale di occupare i posti fondamentali della gestione del potere, che significa anche e soprattutto il mondo dell’istruzione. Media e magistratura. Quindi anche se la sinistra perde le elezioni, oppure se si trova in una condizione di svantaggio elettorale, detiene comunque il vero potere.

Ma il centro-destra in tutto questo che gioco fa?

Non è stato capace di scalfire questo potere perché la “grande occasione” berlusconiana è fallita: nessuna vera riforma della giustizia, nessuna capacità di intaccare davvero il monopolio della cultura della Rai. La pubblica amministrazione negli anni 70 l’ha lottizzata la sinistra, e scuola, presidi, professori, sono tutti affiancati alla sinistra. L’occasione è fallita perché non hanno creato una classe dirigente capace di scalfire questo potere dal basso.

 A Lucca come vanno le cose? Esiste anche qui un approccio egemone e una lettura ideologica dell’esistente da parte dei giornali?

Certo. Qui, tranne minuscole eccezioni, abbiamo tutti giornali filogovernativi.

Senta, ma oltre alle colpe altrui, non pensa che la destra stia sbagliando qualcosa, e gravemente, dal punto di vista della comunicazione e di un vocabolario e lessico limitato, autistico? Mentre la sinistra risulta sempre più vincente, perché si propone anche attraverso un inventario di sentimenti umanistici più genericamente e astrattamente intesi. Il ‘bene’, la ‘cultura’,  la ‘bellezza’, la ‘giustizia’ e di un più generico mondo migliore. E parla attraverso un immaginario preciso, fatto di valori ‘relazionali’, come l’uguaglianza, il rispetto degli individui. La destra invece sembra tacere completamente su queste cose, elemento che a un certo elettorato potenziale procura diffidenza e fastidio. Fallisce, credo, anche sul piano della ‘rispettabilità’ dell’immagine e del registro lessicale. Come qualcuno ha detto, “i modi e i toni dei personaggi della sinistra più in vista sono tra il parrocchiale e il ‘professorale’ “, e questa è una cosa che però sembra dare risultati. Insomma, dove sono white-collar, o i Bersani o i Bertinotti, di destra?

Indubbiamente, lo riconosco, manca completamente una élite culturale di destra, perlomeno visibile. Le responsabilità in questa lacuna sono enormi. Ma fare l’intellettuale a destra, se pure si volesse fare pienamente, fare musica, fare letteratura, è difficile. Si rischia di non fare carriera perché chi sceglie e decide è dall’altra parte, è già schierato, si rischia di rimanere ai margini culturali. Penso anche all’imprenditoria. Vedi quello che è successo ai Barilla?

Però scusi, questo non sembra un buon motivo. Anche la destra, se fosse al potere, farebbe lo stesso non crede? Mi sembra un meccanismo abbastanza tipico, chi ha il potere sceglie e orienta tutto in modo da consolidarsi, non per mettersi in discussione. Perché a nessuno -che si tratti di politica o no – piace portare acqua verso i mulini altrui. Non si può imputare questa come causa, non si può vedere questo come una strategia tipica della sinistra.

 Certo, è una regola generale del gioco della società. Ma il grande errore della destra, vorrei precisare, è l’aver sottovalutato la cultura in senso ampio, come mondo, come ambiente, come pratica e come stile di vita, credo soprattutto dagli anni ’90 in poi. Non ha mai preso sul serio, politicamenteme l’elemento culturale, non ha mai investito in questo neppure in senso ideologico, come invece ha fatto la sinistra. Il loro elettorato è fidelizzato perché ha sempre puntato al volontariato (intendo applicato alla politica) e associazionismo. La politica, insomma, non si fa soltanto in vista degli appuntamenti elettorali, ma in modo continuativo, e questo è un punto su cui la sinistra ha un oggettivo vantaggio.

 Zingaretti e Salvini: nell’immaginario collettivo, il primo ricorda un bravo preside della scuola, il secondo invece evoca una persona intollerante e belligerante. E la Meloni non è una pacata damigella in tailleur. Come mai le figure politiche delle destra sono autolesive, così controproducenti?

Penso che sia il livello complessivo della classe politica attuale che è decisamente crollato. Non ci sono più nemmeno le scuole di partito. Ma in particolare la destra non forma più la sua classe dirigente. Non ha più delle strutture in grado di formarla, quindi l’effetto finale è quello, appunto, controproducente, di una improvvisazione, di un arrembaggio. Nelle liste della destra si determina, letteralmente, un ‘arrembaggio’. Servirebbero donne e uomini diversi, con ideali diversi e orizzonti diversi. Ripeto, non si può vivere solo di elezioni, ma di formazione quotidiana sul territorio, bisogna saper vedere e vivere politicamente sui territori, tra le persone. La Lega è riuscita a creare invece un partito strutturato a partire da movimentazioni dal basso. Questo però soltanto al Nord, qui in Toscana non esiste, è tutto commissariato. Anche Fratelli d’Italia è in un guado: andrebbe ‘ristrutturato’.

E il Partito Democratico?

Nonostante il suo zoccolo duro, non è più comunque più in grado di svolgere la sua funzione storica, di rappresentare le istanze che dovrebbero caratterizzarlo, ossia lavoro e giustizia sociale. Per quanto mi riguarda non sono un liberista o un liberale, anche per me giustizia sociale e lavoro sono al primo posto, ma voglio conciliarli con i concetti-valori di patria, identità e famiglia.

Ma queste categorie di patria- famiglia-identità non crede risuonino alle orecchie di molti, specialmente del ceto più istruito, come termini del dibattito reazionari e anacronistici, che a un elettore medio non dicono nulla o che addirittura possono respingerlo, se questo li legge come elementi dal sapore ‘fascista’?

Credo invece che qualcosa dicano ancora, ma bisogna essere senza pregiudizi per saper vedere. L’orgoglio di essere italiani è qualcosa che esiste ancora, in molti di noi, ed è un orgoglio legittimo e che non implica nulla di cattivo o di disumano, anzi. Però è vero che una lunga ostilità della sinistra a questi termini ha finito per fiaccare questo orgoglio, distruggerlo, proponendo una esterofilia acritica e un senso di colpa paralizzante nel modo di affrontare il tema dell’immigrazione, un fatto che in alcune circostanze crea anche dei disagi di convivenza civica che non possono essere seppelliti come invece il Pd vorrebbe. Lo scopo di tutto questo è alimentare chimericamente una visione, la visione utopica di un modo globalista (in cui tutti sono in perfetta armonia) di intendere la società, modo che tende ad annullare il pensiero individuale di ognuno. E poi c’è stata anche questo mantra, questa retorica un po’ ricattatoria in cui si è detto e ridetto che “gli immigrati sono una forza culturale ed economica perché fanno quei lavori che da noi nessuno vuole più fare”. Se io penso di poter mandare dei ragazzi italiani a raccogliere i pomodori a 5 euro al giorno mi devo legittimamente aspettare che non ci vadano.

 Sembra esserci in atto, e da molti anni ormai,  la costruzione e il consolidamento di un mito dell’istruzione superiore, per cui i figli, automaticamente, devono essere o classe docente o classe dirigente, insomma destinati a professioni e a ruoli ‘creativi’, di potere culturale o di istruzione. Che ne pensa?

Siamo in un sistema culturale dove anziché concepire lo stato in un modo organico per fare realizzare ciascuno secondo la sua capacità e inclinazione, si punta tutto sull’università e si distrugge l’artigianato, il manufatturiero, ed è ovvio che mi ritrovo una massa di giovani che vanno solo per status symbol all’università. E questo avviene onostante le inclinazioni reali magari dicano il contrario, o le oggettive possibilità di inserimento, e nonostante la saturazione ormai patologica degli sbocchi occupazionali. Manualità e artigianalità sono attività che non si sono più volute proporre, inquadrare e valorizzare come expertises, ma rappresentare invece come uno scarto, come una scelta di terz’ordine. Si è diffuso una specie di pregiudizio morale; sono state demonizzate e squalificate in modo quasi irreversibile e la sinistra ha avuto e continua ad avere una enorme responsabilità rispetto a questo. Ossia nell’aver creato e imposto un concetto di formazione, professionale e culturale, assolutamente ideologica e discriminatoria.

E intanto che questo accadeva, però il centro-destra è rimasto lì, a guardare?

Indubbiamente, è una sua responsabilità, anzi più sua che di altri. Solo negli ultimi anni, colpevolmente, ha messo in discussione gli antefatti di questo sistema: la destra berlusconiana era turbo capitalista, turbo liberista, non si rendeva conto di mettersi nemici in casa… la Cina per esempio. Il nuovo interlocutore culturale e politico di una destra che voglia rinnovarsi e crescere deve essere quel ceto medio marginalizzato, stanco e sfruttato, che non si sente più rappresentato dal PD e dal suo mondo, che impone –dall’alto di una istruzione garantita, dall’alto delle ville, dei recinti e dei garage privati, delle case calde e comode e dall’agio dei quartieri perbene- un mondo solidale multiculturale, ma lo propone al ceto popolare e più povero, non a certo a se stesso…