DIRETTORI E PERSONALITA’
Care amiche ed amici vicini e lontani, eccoci alla terza parte della mia
amichevole dissertazione sulla direzione d’orchestra, arte magica,
fumosa ed ineffabile, un mix abile di grande conoscenza musicale, grande
musicalità, grande psicologia e un pizzico di ciarlataneria che è tipica
di chi vuole mesmerizzare orchestra e pubblico insieme.
Noto è l’aneddoto della coppia di ricchi berlinesi che vanno ad un
concerto dell’allora grande direttore della Filarmonica cittadina,
Arthur Nikitsch, il quale era famoso per essere un mesmerizzatore puro
di pubblico ed esecutori, con occhi fiammeggianti e gesti imperiosi che
creavano davvero un’atmosfera. Il marito guarda la moglie incantata, non
capisce niente e inizia a dormire. La moglie lo sveglia e gli dice “Ma
che fai?”. E lui risponde “Per ora dormo, svegliami quando comincia ad
affascinare”. E si rimette giù.
Eppure, battute a parte, la personalità e lo spirito del direttore
d’orchestra sono uno degli ingredienti essenziali della sua arte. Molti
altri direttori hanno provato a concretizzare il concetto, forse solo
Bernstein ce l’ha fatta con la sua famosa frase “battere il tempo sanno
fare tutti: dirigere è tutt’altra cosa”. La personalità e il sentimento,
la capacità di comunicare emozioni e di emozionare, anche con gesti
particolari, che spesso vanno al di là del mero gesto tecnico (la cui
risoluzione, almeno secondo il trattato di Hermann Scherchen, bibbia di
ogni direttore d’orchestra che si rispetti – l’unico trattato in cui
l’autore aggiunse pure i disegnini dei movimenti che la bacchetta deve
compiere per segnalare una determinata figura ritmica – è abbastanza
semplice), quello è il surplus che crea non solo un grande direttore ma
parimenti una grande interpretazione, che diviene grande perchè si
aggiunge la componente psicologica della fascinazione. E il risultato
sonoro cambia.
Un vecchio timpanista sempre della Filarmonica di Berlino raccontava che
quando Wilhelm Furtwaengler, il grande direttore, predecessore di
Karajan alla guida dei Berlinesi, montava sul podio, talmente tanto era
l’affetto che l’orchestra provava per lui, misto a reciproco affetto e
rispetto, che il suono dell’orchestra cambiava. E Furtwaengler era nè
più nè meno considerato un figlio per la sua orchestra, con molti
strumentisti che sarebbero potuti essere padri del grande direttore
visto il mero aspetto anagrafico. E il grande direttore era talmente in
simbiosi con essi da arrivare a andare persino assieme a loro in visita
a note case di tolleranza, nei momenti liberi. Un rapporto che
travalicava talmente tanto il mero contatto lavorativo per cui ogni
interpretazione era davvero un atto di amicizia, di affetto, di amore e
di comunione di sentimenti tra il direttore ed il suo corpus di
musicisti. E il pubblico immancabilmente veniva tratto nelle spire di
questo vortice di affetti. E le interpretazioni erano grandi, nonostante
il fatto che notoriamente Furtwaengler, grande musicista e perfino
compositore, non fosse un buon direttore ed il suo gesto fosse
totalmente oscuro e le sue indicazioni in prova fossero borbottate a
mezza bocca, in modo quasi incomprensibile (la sua espressione tipica
era “Jein”, una crasi di Ja e Nein, Si e No in tedesco, che l’orchestra
riconosceva come l’eterna indecisione del direttore nel prendere scelte
interpretative). Altrettanto nota era l’incapacità del direttore di
eseguire gli attacchi “in levare”: lasciava a responsabilità
all’orchestra e quando un suo famoso Primo Violino gli chiese
gentilmente un gesto un po’ più chiaro, lui gli si ritorse contro
dicendo che se fosse stato più chiaro, la Musica avrebbe perduto quel
senso di mistero e di incertezza che la Musica, secondo lui, doveva
avere. E la difficoltà in quel caso passa proprio al Primo Violino di
Spalla che ha la responsabilità lui, al posto del direttore, di tenere
tutto in piedi.
Ma così grande era la capacità di irradiazione di Furtwaengler che le
interpretazioni furono e restano memorabili: nonostante le mende
tecniche. Una lezione per i giovani, tutti impegnati ad avere un tecnica
impeccabile (spesso con scarsi risultati, peraltro) e totalmente
disinteressati a capire lo spirito delle musiche che dirigono, a
conoscere umanamente i propri colleghi musicisti, a perseguire insieme
un risultato artistico, a ricreare letteralmente una partitura, una
partitura che però, sic et simpliciter, prima di essere diretta deve
essere AMATA.
Karajan fu la summa del gesto, dell’evocazione, dello spirito: più in
senso di incarnazione della volontà di potenza che non della profonda
umanità del suo predecessore. Karajan aveva un gesto, un’ attitudine
(smorzata forse in vecchiaia, mitigata ma sempre potente ed evocativa),
uno scatto, una potenza che facevano intravedere il Capo prima
dell’Amico, che per il Pubblico erano il Comando fatta persona. Che per
orchestra e audience erano l’Autorità assoluta, che guida senza
esitazione, che porta sulla via della grande Musica con precisione ma
con profondità e calore, ma senza incertezza. Senza forse quel pizzico di
umanità eccessiva ma con quella autorevolezza per cui i ruoli si
invertirono e l’orchestra, che era Madre (o Padre) di Furtwaengler,
divenne Figlia ( o Figlio) di Karajan. Il pubblico rimase e rimane senza
parole a guardare il gesto di Karajan e l’effetto di quel gesto sulla
Musica e sulla sua esecuzione è non solo immenso ma imprescindibile. La
Musica è frutto del gesto del direttore: il gesto può essere asciutto,
essenziale, scabro (con le braccia che restano quasi appiccicate al
corpo, e tutta la tecnica resta in mano all’avambraccio ed al polso, con
una economia di gesti sorprendente), e l’interpretazione sarà anche
frutto di quel gesto. Il gesto sarà esteriore, coinvolgente,
trascinante, sinanche teatrale: l’interpretazione ne risentirà, con un
risultato sonoro, magari proprio con la stessa orchestra, totalmente
divergente nei due casi. Karajan creò un gesto unico, infatti esiste un
pre-Karajan e post-Karajan nel mondo della direzione. E il suo
coinvolgimento, quello dell’orchestra e quello del pubblico in ogni sua
interpretazione furono sempre massimi e irraggiunti.
Ovviamente tutto è possibile ad una condizione: che si possa e si voglia
lavorare per decenni con la stessa orchestra, con lo stesso gruppo di
persone. Una volta era possibile: oggi non più. Oggi ogni direttore,
almeno quelli “famosi”, ha almeno tre o quattro (se non di più) sedi
lavorative prestigiose. Quindi la capacità di costruire con tempo, con
dedizione, con diligenza un suono orchestrale tipico ed un gesto
altrettanto tipico non può esistere. Karajan stette 35 anni con i
Berliner, Furtwaengler quasi altrettanto. Capite cosa vuol dire
umanamente e professionalmente? Tu conosci ogni capello dei tuoi
musicisti, e quindi il risultato sarà ancora più alto e solenne. Oggi un
grande passa tre mesi che ne so a Londra, due mesi a Dresda, quattro
settimane a Chicago, due mesi di ferie, altri due mesi a Parigi e altre
tre settimane a Pietroburgo. Morale? Tutte le orchestre suonano nella
stessa maniera, tutti i direttori dirigono nella stessa maniera.
Meno male che ci restano i documenti, sonori e visivi, di una grande
arte in via di totale estinzione. Potrei continuare per mesi a narrarvi
dei grandi del passato la cui personalità , le cui idee musicali, la cui
Weltanschaung ha forgiato il settore della direzione di orchestra, a
dimostrazione che prima di tutto, conta LA PERSONALITA’ di chi monta su
un podio (e quella è come il coraggio manzoniano: o ce l’hai, o non te
la insegnano certo a scuola). Ma questa è un’altra storia e la
racconteremo un’altra volta.