Verdi o la passione per il dramma

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Verdi o la passione per il dramma

Quando il critico tedesco Guckeisen scriveva nel 1877 che «Giuseppe Verdi è per il popolo tedesco il compositore del Trovatore, per l’aristocrazia musicale il compositore del Requiem» e quando Paul Dukas, agli inizi del Novecento, enunciava che «da facitore di opere» era diventato solo sul tardi «musicista drammatico», entrambi stabilivano una falsa dicotomia che ancora oggi non è facile superare anche nelle persone colte e perfino dentro la realtà della musica. Così la concezione di un Verdi “popolare” e di un Verdi accettabile dalle élites è stata per molto tempo la visione critica che ha avuto più fortuna per ciò che riguarda la complessità di un compositore che ha affascinato l’immaginario collettivo non solo italiano, ma anche europeo. In seguito si è innescata fatalmente una reazione che ha esaltato il compositore rozzo e brutale del Nabucco a scapito di quello più raffinato, ma un po’ anemico, del Falstaff. In Italia, l’esponente più brillante di questa tendenza è stato Bruno Barilli che, nel suo celebre libro Il paese del melodramma (1930), giungeva ad opporre, in modo polemico, proprio il Falstaff, «questo grande capolavoro, sollievo ed edificazione di tutti i kappellmeister», in cui il fuoco del grande Verdi, però, non è altro che “cenere calda”, al Trovatore in cui c’è «crepitio di genio: tanto genio che grandina». Tuttavia, l’idea di un Verdi popolare o neobarbaro non sembra sparito con Barilli, se nel 1974 Massimo Mila se la prendeva ancora con gli intellettuali «musicisti d’avanguardia e pittori astratti» che trovavano l’arte di Verdi tanto più grande quanto «più incolta e primitiva».

In realtà, la maggior parte di tutti questi punti di vista sono interessanti, non già sul piano pratico, quanto piuttosto su quello della storia della cultura dal momento che la personalità di Verdi, potente e complessa, è stata oggetto di ogni sorta di travestimenti mitologici: ora ardente cantore del Risorgimento, ora padre di quell’Italia nuova che aveva saputo darsi un posto al sole nell’Europa moderna, ora il contadino che uscito dall’Italia profonda e provinciale aveva conquistato faticosamente una dimensione europea. Ed altro ancora. Il fatto è che, l’apprezzamento più o meno della sua opera, ha messo in gioco le grandi scelte estetiche della nostra epoca con acuta e disarmante semplicità: opera di pezzi chiusi o dramma musicale, arte popolare o arte per élites, arte come istinto o arte come costruzione, barbarie o decadenza. Eppure, dietro ad ogni opera di Verdi c’è un mondo drammatico profondo, originale e coerente che sulla scena trova la sua più compiuta intuizione e realizzazione. Lo stesso Verdi, infatti, a chi voleva definirlo “grande musicista”, avrebbe risposto un giorno: «Lasciate perdere il grande musicista, io sono un uomo di teatro». Ed è appunto di teatro in musica che, da un capo all’altro della sua produzione, ci parla l’opera di Verdi. Qualcosa di concreto e di imprendibile, perfino di misterioso e di eloquente, che non ha eguali se non nel teatro di Wagner. Sotto questo aspetto, soltanto Puccini, sia pure con le dovute differenze, gli sta accanto o di fronte. Sì, la bellezza e l’incanto del teatro in musica che, nella finzione scenica esaltata dalla musica, parla di noi e con noi nelle profondità ignote del nostro vivere e morire.

Non a caso, il teatro verdiano si offre con due elementi essenziali che ci ricordano ancora la tragedia classica: un patrimonio ingentissimo di personaggi e situazioni drammatiche (R. Mellaci) che supera d’un balzo la quasi maniacale ossessione per la passione amorosa, tipica dell’opera romantica italiana, da Bellini a Donizetti. Così, Verdi concepisce ogni dramma come qualcosa di unico e di irripetibile, mentre i suoi personaggi – Rigoletto, Violetta – non potrebbero migrare, per così dire, da un dramma all’altro: ogni “carattere” è, infatti, saldamente ancorato al dramma che lo ospita e lo sostiene in quella “voce” o intonazione musicale specifica che lo fa esistere davanti a noi e per noi. Tutte le situazioni sceniche, di fatto, rappresentano il fulcro della passione verdiana per il dramma ossia la ricerca instancabile di situazioni nuove, ardite, e nelle quali il conflitto deflagra incandescente fino a lasciare i nervi scoperti di un conflitto insanabile e sempre attuale. Proprio come nella tragedia antica.

La tensione costante verso una drammaturgia, originale e individuale, è frutto in Verdi, da un lato, dalla scelta accorta della fonte letteraria e, dall’altro, da un confronto serrato con la molteplicità di modelli drammaturgici, di stampo europeo, selezionati e rielaborati da Verdi con una rarissima capacità di sintesi, grazie all’influsso operato in lui dal Manzoni delle tragedie. Sarebbe un discorso lungo. Ma per il momento possiamo dire che l’evoluzione di Verdi nel suo teatro in musica, come ha notato finemente Gilles de Van, non è progressista o “ascensionale”, bensì solo conflittuale. Non va di bene in meglio, ma scaturisce da una percezione della storia e dell’avventura umana in continua “crisi”. Ed è a questa tensione particolare che Verdi deve la sua indiscussa modernità. Per questa ragione, più che dietro, Verdi è ancora davanti a noi.